SOMALIA: Epilogo
8 giugno
1994.
Sono spariti
dal "magazzino-alimenti" circa sessanta litri di
vino
di
qualità scadente,
per intenderci quello contenuto in
involucri
di
carta
che mia madre usa in cucina per insaporire i cibi
in
cottura.
Qui non
beve nessuno o meglio, qui bere è
rigorosamente
immorale, contrario ai precetti coranici ma proprio
per
questo,
azione
trasgressiva quindi cosa bella da fare di nascosto
magari
in
compagnia di
qualche prostituta una volta maritata, oggi
vedova
o
ripudiata e
costretta a vendersi per campare sè stessa , i
figli,
i
fratelli in armi ma
nulla facenti ed i genitori ormai
prossimi
alla
morte.
Ma torniamo ai
fatti.
I nostri
sospetti, dopo qualche tentativo di depistaggio
e
finalmente condivisi
dalle Autorià locali (Governatorato
e
Commissariato di
Polizia), hanno preso la strada che
conduce
ai
fidi
"morian", gli indomiti agenti di sicurezza del
campo
ospedale,
evidentemente valorosi ma anche un pò ubriaconi o
magari
lungimiranti
piccoli imprenditori, pronti a versare nel
povero
mercato di
Giowhar, l'ormai famoso nettare degli
dei.
Li abbiamo
chiamati a raccolta, capi compresi, presso
il
tendone
militare
che ormai quasi per abitudine, ospita incontri di
una
certa
importanza tra personale locale e
stranieri.
Evidentemente già a conoscenza dell'accaduto, non
hanno
opposto
resistenza alcuna quando sono stati informati
che,
qualora il vino
non fosse tornato in mano ai
legittimi
proprietari
entro ventiquattro ore, la Direzione del campo
avrebbe
provveduto e
senza tener conto della eventuale interferenza
di
notabili,
anziani e via discorrendo, avrebbe provveduto
dicevo,
al
licenziamento delle
guardie in servizio nel turno di notte,
il
momento del
furto secondo noi.
Voglio precisare il mio ruolo in queste
controversie.
Non ho
mai preso parte attiva nelle varie discussione tra
le
parti,
sono
sempre stato in un cantuccio a guardare; non che
non
avessi
cose da
dire ma la mia difficoltà, e questa era cosa
risaputa,
è
sempre
stata quella di parteggiare per il gruppo
dei
"cooperanti".
Come dire, mi tenevano da parte per evitare possibili
guai,
"bastone e
carota con questi!", mi dicono al campo ed io
il
bastone non so
neppure tenerlo in
mano.
Nel pomeriggio
su richiesta del capo guardia si è tenuta
una
nuova riunione
questa volta più concitata della precedente
e
nella
quale si
sono fatti avanti tra imprecazioni varie e grida
di
deplorazione dei
Somali qui convenuti, due sedicenti
colpevoli
che un
interprete ci ha riferito avrebbero addossato a
loro
stessi
la
responsabilità dell'accaduto portando a discolpa i
figli
malati,
la
mamma in punto di morte, la fame, la guerra, insomma
la
solita
minestra
che dalla Cina alle Americhe, ogni ladruncolo
pescato
a
rubare,
prepara per chi si appresta a commisurargli una
pena.
Una somma pari
ad un mese di stipendio, più o meno
duecento
dollari
U.S.A., questa è stata
l'ammenda.
Non
soddisfatto però, il piccolo esercito di guardie ha
deciso
di
spettacolarizzare l'accaduto incatenando, mani e piedi, i
due
poveracci ad un
palo sito nel bel mezzo del piazzale del
campo:
il
paradigma
delitto-giudizio-pena si è farcito così di
quella
componente
drammatica che è di gran gusto ai forcaioli
che
sempre popolano i
gruppi di balordi e
violenti.
Nessuno di
noi è intervenuto: mai contrastare, qualcuno ci
ha
suggerito,
delinquenti di tal risma, amici dei cammelli
nella
boscaglia ieri,
guerriglieri al soldo del denaro e non
delle
idee
oggi!
Eppure io credo,
superata l'epica del "furto deplorevole"
o
della
"certezza
della pena" e via via della valanga di cazzate
che
ci
hanno
accompagnato a cena, nella quiete della riflessione,
in
compagnia della
notte che tra non molto mi avvolgerà nelle
sue
braccia
regalandomi sogni di pace e di sesso, eppure io
credo
che questa
situazione di fame giustifichi ogni sorta di
furto;
ho
visto un
tale, ieri o ieri l'altro, carico di bottiglie di
plastica che
noi
buttiamo via dopo
averle vuotate del contenuto, acqua
o
aranciata o
Coca.
Ebbene, ho
saputo che ne esiste un commercio in città ed
una
bottiglia viene
venduta al prezzo di mezzo dollaro
U.S.A.
Per farne cosa
poi?
Ho saputo anche
dell'esistenza di ben sedici farmacie
a
Giowhar;
non
esiste un sevizio sanitario nazionale, i farmaci
sono
venduti
senza
ricetta e senza che il commerciante ne abbia
competenza
alcuna.
Capita così di
verificare l'ammanco dalla nostra farmacia
di
numerose scatole di
antibiotico, lo stesso che pochi giorni
dopo
il
furto si riversa
nelle case delle famiglie comuni a curare
poco
più
di niente come
qualche giorno di stitichezza o un pò
d'astenia
o
addirittura una certa riduzione della libido in una
giovane
coppia
ancora in ritardo nella produzione in serie di figli... sì mi
è
capitato
d'appurare
anche questo e mi è risultato pressoché
impossibile
spiegare l'inutilità e la velenosità di quelle pozioni,
ritenute
invece
magiche.
Come da noi,
anche qui tutto ha mercato, tutto ha un
prezzo,
persino le
bambine o poco più che qualche "pappa" locale
ti
propone tra un
sorriso beffardo ed una pacca sulla spalla,
in
cambio di un paio
di scarpe con la suola di cuoio
o
addirittura
solo
in nome di una "antica" amicizia che unirebbe i
nostri
popoli.
Ma
quale amicizia, chi ti conosce, pappone
musulmano!
Così penso
ma non dico, mi limito ad un sorriso di
circostanza
e:
"grazie ora no, magari un'altra volta, grazie
comunque".
Anch'io
sono un pezzo ormai di questa guerra inutile, tutto
si
vende anche
cose inutili e la guerra è la spinta propulsiva
di
questo "libero"
mercato così uomini grassi vestono abiti
italiani
e
fumano sigari
immensi vicino a bambini malnutriti, quasi
nudi
ed
ammalati,
riversi vicino casa rassegnati e dimentichi d'ogni
sorta
di
gioco o
divertimento.
Per
fortuna oggi le armi hanno taciuto ma, cosa strana, a
noi
tutti
è come se
fosse mancato qualcosa, una canzone, una
musica
conosciuta e
canticchiata da un pò per abitudine alla
mattina
appena svegli
o di sera tra amici.
Il silenzio dei mortai ha rumoreggiato nella quiete
della
nostra
normalità.
Normalità!
Un fucile
in spalla ad un giovane adolescente è una parte
del
suo
abito,
qualcosa senza la quale quello stesso giovane
ci
apparirebbe meno
bello e affascinante, forse
monco.
A proposito di
abiti, ecco pronta per la vostra
curiosità
qualche
notizia sulla moda Somala: stupende sono le stoffe che
le
donne
avvolgono
ai loro corpi nei modi più strani, nascondendo
l'inizio
e
la fine di quel
groviglio; i loro colori spesso chiamano
a
sintonia
quelli
dei copricapi, anch'essi di stoffa e ben disposti a
coprire
i
folti capelli,
elemento forse troppo femminile e precluso
alla
vista
degli
uomini.
Scoperte
invece le mani ed i piedi, spesso tinteggiati
o
addirittura,
forse a comunicare una certa civetteria, adornati di
disegni
anche
complessi dai motivi floreali o a me indecifrabili; la tinta
è
un
preparato
ricavato da una corteccia di un albero non
presente
in
Somalia. Presumo quindi che il cosmetico sia di
importazione.
Cadisha,
un'infermiera del Pronto Soccorso, disegna
cerchi
concentrici
sulle sue mani, mani che muove sempre
con
eleganza,
tenendo le dita , lunghe e affusolate, ben tese come se
avesse
da
far
asciugare perennemente lo smalto; se è seduta,
accavalla
le
gambe
con eleganza e naturalezza, scoprendo i piedi sino
alle
caviglie quasi a
regalare un attimo di sensuale femminilità,
timida
e
casta. E'
straordinariamente somala, ha la carnagione
chiara,
gli
occhi
allungati e innocenti, le labbra carnose, il volto
allungato
su
alti zigomi; un
velo nero le copre sempre il capo, qualche
volta
il
viso ed allora
questa sua imperscrutabilità diviene
regale,
inaccessibile,
immensamente elegante.
E' sposata ad un uomo che non può amare poiché è via
da
tempo, a lavorare,
lei dice, in Arabia Saudita. Ma
Cadisha
porta
bene
la sua solitudine, ne nasconde il fuoco con serenità e
le
sue
mani, i suoi
piedi così egregiamente tinti me la conducono
in
sogno mentre
seduta, una gamba sull'altra, si colora il
corpo
ora
senza
veli.
Cadisha è
morta di tubercolosi polmonare qualche tempo dopo
il
mio rientro
definitivo in Italia; ci aveva tenuti all'oscuro
di
questa
sua condizione
per non perdere il lavoro che amava
veramente.
Ha pagato
quest'amore con la vita non avendo mai
intrapreso
alcun tipo
di cura.
-
10 giugno 1994.
Qualche cenno sulle etnie o tribù o, come dicono qui,
cabile.
So che ci sono
gli Abgal, gli Awadle, gli Aberghidir, gli
Sciddle,
i
Galgel e tante
altre.
E' strano
vederli così ferocemente in lotta tra loro ma
non
divisi
da
alcuna motivazione ideologica o
politica.
E' strano
ancora dover tener presente che la Somalia è uno
dei
pochi stati
africani ove una è la lingua, appunto il Somalo,
una è
la
religione, l'Islam
nella sua versione
sunnita.
Questa unità
si disgrega però nel momento in cui sorge
la
necessità di dar
vita ad un
potere.
Dico un potere
qualsiasi!
Si arriva
alle mani, anzi alle armi, per eleggere un
governatore
o
più semplicemente un
commissario di polizia ma anche il
capo
del
personale
in ospedale, il caposala, il cuoco
responsabile
delle
cucine del campo.
C'è
un livello di litigiosità tale tra la gente anche comune
che
è
possibile morire per
un piccolo furto, per una manciata
di
scellini
somali
che hanno più o meno il valore della nostra
carta
igienica.
Tutti vorrebbero comandare, rivestire ruoli importanti e
di
responsabilità ma
nessuno vuole però essere
comandato,
sottostare
ad un potere anche se minimo,
insignificante.
E
mediare è cosa difficile perché tante sono le parti
e
praticamente nulla è
la volontà comune di
pace.
Nessuno inoltre
ha uno spiccato interesse a che questa
storia
finisca una
volta per tutte: forse la "Cooperazione" che
per
decenni ha
fabbricato e promosso dittature compiacenti
e
garanti
del
rientro "a casa" di parti consistenti degli
aiuti
stanziati?
O
forse le Associazioni Umanitarie non governative
(N.G.O.)
che
hanno
fatto di queste terre nuove
colonie?
Qui oltre
alla morte ci sono i soldi, quelli veri non
gli
Scellini
somali, quelli che fanno gola agli uomini della politica,
degli
affari,
delle
ideologie, delle varie mafie, delle
religioni.
Ma torniamo
al nostro "Ospedale Italia" come qualche
zelante
operaio ha
scritto in vernice rossa sulla facciata
d'ingresso
dello
stabile a due piani, bianco e pieno di finestre senza
vetri,
circondato da
piante e fiori giovani che qualcuno sta
curando
quasi a
propiziarsi un "nuovo" che sia un pò migliore
del
"vecchio".
Si contano
una cinquantina di posti letto in totale,
distribuiti
in
stanze da quattro o
cinque posti letto ciascuna; i bagni
sono
pochissimi,
sporchissimi ma ci
sono.
Ogni piano ha un
ambulatorio che funziona un pò da centro
di
raccolta del
materiale ospedaliero che si cerca di
tener
raggruppato per
poterlo controllare meglio ed evitare
che
venga
rubato.
Conservo i
farmaci in armadietti di ferro chiusi con
lucchetti;
ne
tiro fuori
quotidianamente una parte a seconda delle
necessità
ma
questa
cura non ne impedisce il continuo furto da parte
di
alcuni
infermieri.
Non amo
questo ruolo da maresciallo di caserma, non mi
piace
tenere tutto
sotto chiave, non sono oggetti di mia
proprietà,
vaffanculo
agli infermieri con le mani
lunghe!
Gli
infermieri.
Percepiscono uno stipendio di 80 dollari U.S.A. mensili e
sono
stati
reclutati all'epoca della gestione dei militari
italiani
secondo
logiche a noi tanto care, di favori e
raccomandazioni.
Nessuno si è mai preoccupato di effettuare un minimo
di
formazione e per
questo il personale è assai
scadente,
demotivato,
spesso ingiustificatamente assente dal lavoro
o
pescato a dormire
durante i turni diurni e
notturni.
Alcuni tra
loro sono dispettosi e vendicativi nei
nostri
confronti,
altri ripropongono in ospedale le dinamiche tribali creando
odio
e
divisione tra
colleghi, altri ancora mostrano un timido
interesse
ma
nulla di
più.
Tutti non hanno
coscienza del fatto che l'ospedale
verrà
presto
gestito completamente da loro, tutti credono di operare in
una
struttura
straniera, alle dipendenze di gente
straniera,
nessuno
ipotizza un futuro professionale possibile, nessuno crede
di
dover
imparare
la propria
professione.
Gli orari
di lavoro, distribuiti in due turni giornalieri, uno
diurno
ed
uno notturno, non
sono certo una conquista
sindacale
(8,30-17,30
di giorno e 17,30-8,30 di notte!) ma rispondono
ad
una chiara
necessità di "tagliare " sul personale e sui
costi
in
generale
da parte di Intesos, in questo caso vero e
proprio
"datore" di
lavoro.
Lontano circa
duecento metri dall'ospedale, appena
dopo
piccoli
appezzamenti coltivati a pomodori, melanzane, zucchine
ed
affini,
tutte
figlie straniere di semi venuti dall'Italia per mano
di
previdenti
infermieri e medici volontari, al di là di un muretto
ove
bambini
attendono niente come uccelli sul ramo di un albero, sta
un
edificio da poco
restaurato ed adibito a mensa per
il
personale
dell'ospedale.
I
dipendenti vi si recano a turno a consumare pasti per
la
verità
poco
sostanziosi ma sufficienti per immaginare, noi e loro,
un
abbozzo di
"walfare", un pezzo d'Emilia qui, in una terra
priva
di
spina dorsale ed in
mano a moti d'istinti
animali.
Una scodella
di riso o polenta sposata ad un pezzo di
manzo,
poi
una
banana, e così tutti i giorni nella speranza di
variazioni
inaspettate di menu o magari sorprese come in un gioco
a
premio,
qualche
galletta, una razione K dei militari italiani, un
pacchetto
di
caramelle; il cuoco
deve avere un bel da fare in cucina
tra
pentoloni luridi e
bruciati dalle fiamme di un forno privo
di
cappa
e le
mosche che sembrano divorare ogni cosa qui dentro,
sono
come impazzite al
profumo sconosciuto del
cibo.
Ho assaggiato
del riso dalle mani del cuoco che fiero mi
mostra
la
carne bollire come
a voler gridare un ritrovato benessere
in
quest'angolo di
Somalia, protetto e lontano dal
resto.
Osservo ma non
rido con gli altri, no, questa gente in fila,
in
attesa
con in mano la
scodella di metallo, questa gente che a
turno
siede
nella
sala da pranzo buia, sporca, angusta, piena di
mosche,
questa gente
sempre petulante e ciarliera ed ora in
silenzio
ad
aspettare del riso privo di salsa, questa gente mi
rattrista
un
casino
e penso a delle posate, una forchetta, un cucchiaio.
14 Giugno 1994.
Questa notte abbiamo avuto
un'emergenza.
Una
ragazza, poco più di quindici anni, è stata
accompagnata
in
Pronto Soccorso verso l'una: presentava una frattura
esposta
della tibia
con un'ampia ferita sui due lati della
gamba.
Ha perso molto
sangue, abbiamo speso ogni nostra energia
per
tamponare
l'emorragia.
Forse
verrà amputata o forse
no.
Deciderà Allah o
qualcun altro.
Il
destino del suo arto malconcio è legato alla possibilità
che
arrivi
un chirurgo,
tale dottor Abdullai, dalla
martoriata
Mogadiscio.
La meccanica dell'incidente è spaventosa: cinque giovani
dopo
aver consumato
con lei the e droga, erba da masticare o
da
fumare, le hanno
chiesto del sesso; la ragazza ha avuto la
forza
di
negare questa
performance e resistere ai maneggiamenti che
si
sono susseguiti
sino a quando il più fuori di testa del
gruppo
o
forse più
semplicemente il più cretino, ha esploso con il
suo
"giocattolo" una
manciata di proiettili a
terra.
Il risultato
del "supremo" atto di forza è stata
la
macellazione
dell'arto che noi con rabbia e dedizione, ma
soprattutto
rabbia,
stiamo cercando di
salvare.
Ho conosciuto
i suoi genitori, la madre ha qualche anno più
di
lei,
non molti
per la verità, il padre sembra invece suo
nonno
secondo
una
consuetudine che offre agli uomini e non alle donne
la
possibilità di
scegliersi la compagna, magari di trenta
anni
più
giovane,
senza che questa possa esprimere il proprio
dissenso.
Ora mi
vien voglia di divagare su questo tema e magari
di
pensarmi in diritto
forse religioso di sposare una
bambina,
un'amica di
mio figlio; mi vien voglia di capire ma
non
riesco,
sono
qui da troppo poco tempo per ragionare
d'amore.
Torno allora
ai fatti: la madre bambina della figlia
vittima
bambina.
Poi dirò del vecchio capofamiglia
padre.
Ho già detto
una madre giovane, quasi una sorella
maggiore,
avvolta in
un telo sgargiante ed annodato, dopo alcune
curve,
dietro il
collo; ha il volto rigato ripetutamente da
lacrime
ad
espressione di una silenziosa sofferenza ma ben lungi
dalla
protesta, dalla
rivolta nei confronti di un potere,
quello
maschile,
che qui è opprimente, straripante, sempre
violento.
La osservo
mentre attende l'esito dell'intervento,
non
sappiamo
ancora
se la ragazza conserverà la sua gamba; a volte
cerca
con
lo
sguardo me o un'infermiera o il medico ma ci manca
il
coraggio
per
affrontare quegli occhi ed allora ci
indaffariamo
maggiormente
chiedendo materiale più pulito, garze di grandezza
maggiore
per
raccogliere il sangue copioso o più semplicemente qualcuno
che
ci asciughi il
sudore che ci riga la
fronte.
Qualcuno
curiosamente si avvicina e viene subito
ricacciato
fuori
a
grossa voce: la curiosità per fatti così tragici ci
irrita
oltremodo,
anzi questa rabbia che ci attanaglia, questa aggressività
che
avrebbe come
giusto sfogo quel gruppo di balordi, vien
fuori
ingiustificatamente contro questi incolpevoli curiosi
ammalati
solo
di
petulanza e niente
più.
Finalmente il
padre in compagnia di un membro del
"consiglio
degli
anziani": lunghe barbe, andature solenni, il più
anziano
completa
la sua presenza con un bastone ben lavorato
forse
espressione di
"legge" o "giustizia" futura o forse solo
un
semplice
sostegno ad un corpo violentato dall'artrosi e dagli
anni.
Ci dicono che
hanno bisogno di vedere la ragazza
per
quantificare con
precisione i danni; un interprete accenna
a
mezza
bocca la
parola "soldi", forse il tutto avrà come epilogo
un
semplice
risarcimento?
Dio
Santo! Continuo a vivere le situazioni come se mi
trovassi
in
Italia,
mi vien voglia di gridare: "Ma perchè non rompete il
culo
a
quegli stronzi che
hanno sparato!"
Mi
limito ad impedire che la premiata coppia entri in
sala
operatoria
adesso, adducendo a reali ed ovvi motivi
di
possibile
contaminazione del campo operatorio; la ragazza inoltre
è
sotto
Ketalar,
l'anestetico che ci consente di operare, quindi
non
potrebbe comunque
testimoniare alcunché.
I "vecchi" intendono e si accomodano al centro di una
piccola
folla curiosa
che parla e gesticola animosamente forse
ad
esprimere
solidarietà o magari quel desiderio di vendetta
che
li
renderebbe a
me più fratelli.
Di
nuovo in sala operatoria: la ferrista, Alima, è zuppa
di
sudore
ma si
muove con sicurezza e senza tradire fatica; c'è
Dadow,
l'anestesista,
o meglio l'aspirante tale: conosce
bene
l'inglese,
meno l'italiano, ha poco più di vent'anni ma già
grossa
esperienza.
E' assai volenteroso, ha un desiderio irrefrenabile di
imparare
il
mestiere, mi chiede
continuamente dell'Italia, della
possibilità
di
venirci a studiare
ed a lavorare ma come faccio a
spiegargli
dei
"vu'
cumprà", della droga e della prostituzione, degli
affitti
esorbitanti e di Villa Literno coi pomodori e i Caporali,
come
faccio a
parlargli dei naziskin, delle botte e della
Caritas,
dei
Murazzi di Torino e di Don Ciotti e il Gruppo
Abele.
Addow non
conosce queste cose, ha solo voglia di imparare
il
suo
mestiere.
Ho promesso
di aiutarlo, prima o poi; Addow sorride, questo
lo
ha capito, non
lo farò mai, un giorno tornerò in Italia e
lo
dimenticherò, come
hanno fatto tutti quelli che sono venuti
qui
ed
hanno promesso il
mondo ma poi...
Alima
e Addow compongono lo staff fisso della sala
operatoria,
gli
infermieri invece girano a turno e comunque qui dentro
non
si
occupano di
cose importanti se non di tenere fermi i
pazienti,
preparare materiale vario necessario durante
l'intervento,
impedire
agli estranei di fare ingresso in
sala.
L'ambiente è
ampio e luminoso, abbiamo una buona lampada
ed
un buon tavolo
operatorio, siamo a corto di ferri
chirurgici
avendo poca
possibilità di
sostituirli.
L'autoclave per sterilizzare il materiale di sala ci
consente
un
operato
accettabile e un buon grado d'igiene anche se
risulta
sempre
difficile far capire alla svogliata ausiliaria del
piano
terra
che la sala
operatoria ha priorità assoluta e soprattutto
che
questa
stessa
richiede una cura particolare: la vecchia donna
sorride
ed
alza il
braccio come a dire "piano, piano se Dio vuole!",
poi
di
nuovo seria
continua nelle sue cose infischiandosene di
quanto
appena
detto.
Ogni addetto
che entra in sala, toglie le scarpe appena
sulla
porta
ed
indossa delle ciabatte di gomma sempre pulite; non
è
consentito
avvicinare il tavolo senza reali
motivi.
Poche volte
lavoro in sala operatoria, non mi piacciono
i
chirurghi
e la
chirurgia, non mi piace la rudezza dei comportamenti,
non
mi
piace
tagliare e cucire, odio il caldo opprimente e il
sudore,
eppure ora
sono qui, in emergenza, camice, guanti
e
mascherina,
di
notte; qui nel tentativo di salvare la gamba alla
ragazza.
In tre ore il
chirurgo riesce a venire a capo
della
situazione,
l'intervento è finito, disinfetto e dispongo la doccia gessata
al
di
sotto dell'arto
cucito: ora c'è da aspettare e
sperare,
"ishallah"
dicono tutti guardando il cielo, "ishallah" dico io con
poca
convinzione,
"ishallah" dice la ragazza appena appena
sveglia
sotto il
ceffone affettuoso di Addow, "ishallah" dice
Allah
osservandoci
tutti da su!
Ora il
mio desiderio di vendetta sembra quasi
soffocato,
l'intervento è riuscito, sono quasi felice, è tardi, sarà
il
sonno,
guardo il
cielo pieno di stelle, qui seduto appena
fuori
l'ospedale;
mando giù una Coca e, distratto, accetto un po' d'erba
da
masticare da una
guardia notturna che mi guarda e ride
col
mento
sulle
ginocchia ed il Kalashnicov a
fianco.
Sono calmo e
rilassato e mi godo questa insolita
frescura
lottando
fiacco contro migliaia di
zanzare.
Riuscirò mai
a dimenticare quell'abito dilaniato, il
terriccio
cosparso
sul volto, i lamenti, il sangue, il sangue
soprattutto
col
suo odore
dolciastro che conservo ancora in gola e
nei
confronti
del
quale neppure la chimica di questa Coca-Cola può
far
nulla?
19 Giugno 1994.
L'arrivo di un numero impressionante di pellicani nella
zona
appena inondata
dalle acque del fiume Shebelle in piena,
è
stata
occasione
di uscita dal campo.
Il fiume straripato dal suo letto naturale a causa di
possenti
alluvioni, ha prepotentemente disegnato un paesaggio
fantastico
e
finora sconosciuto
ai miei occhi; l'acqua non ha
risparmiato
proprio
nulla: case, alberi, terreni coltivati, tutto appare
nelle
sue
parti terminali,
quelle più vicine al
cielo
Non sono un
esperto e di fronte a così tanta vegetazione
i
miei
occhi
curiosi ed inconsapevoli si muovono come quelli di
un
bambino per la
prima volta davanti ad un paese di
balocchi.
Dei fiori
bianchi, forse ninfee, galleggiano sulle loro
barche
di
foglia
larga e poi una infinità di alberi rigogliosi gonfi
di
frutti
colorati
e dalle strane forme.
Nelle zone ove l'acqua è più bassa, stanno a
sentinella
immobili
coccodrilli che sembrano presidiare questo paradiso a
difesa
di
trampolieri dalle esili zampe ed ancora ibis, fenicotteri
e
chiassosi
volatili affamati di pesce e per questo continuamente
in
picchiate
sulle
docili acque.
Simpatico è il martin pescatore vestito d'un abito
eccentrico,
poi
anatre e corvi dalle piume sgargianti che riposano stanchi
su
un
albero,
grazie a loro colorato di
blu.
Tutto questo non
ha mai abitato i miei sogni o pensieri,
fino
ad
oggi ero
ignaro di così tanti colori, sfumature,
luccichii,
come
miraggi di un eden irreale ove ogni cosa è ferma o si
muove
anarchica e non
governata da forze o leggi o
motori.
Così mi
appaiono anche i solitari contadini che
all'asciutto
muovono
pigramente qualche zolla di terra o alcuni pastori
che
guardano fissi
ma senza alcun interesse il loro
patrimonio
sparuto
di capre o vacche magrissime o ruminanti
cammelli.
Le
abitazioni immediatamente fuori la città, sono capanne
di
legno
e fango
costruite senza eccessiva dovizia, le une vicino
alle
altre,
così
quasi ad abbozzare quartieri di città che verranno
ed
oggi
soltanto
poverissimi villaggi.
Uscire dal campo non ha affatto mutato il mio stato
d'animo;
qualcuno mi
crede depresso e per questo promuove
improbabili
assunzioni
di pillole della felicità così tanto di moda
in
Italia.
I miei
inspiegati silenzi, la mia voglia di solitudine,
questa
mia
condizione di antipatica asocialità non è affatto lo
spettro
nascosto che
divora vita ed energia, non sono depresso
ma...
come in assenza
di ogni tipo di moto, fisico ed interiore;
vivo
una
sorta di pace
senza parole, di fissità di sguardi e
pensieri,
di
inconscia rinuncia al pianto e al riso, acceso al minimo
del
solo
metabolismo basale.
Vivo una specie si "somalità" che mi accomuna alla
gente
normale
disinteressata alla guerra, al cibo, alla morte; conduco
una
esistenza
simbiotica con l'Ospedale ove trascorro la
maggior
parte del mio
tempo anche senza far nulla, fuggo dai meeting
o
dalle cene di
rappresentanza con scuse banali, annoio
nei
momenti di svago
con il personale italiano, mi irrita il
discorso
del
medico bianco che
vanta la sua conoscenza
dell'Africa
bombardandola di etichette e luoghi comuni e
proponendo
standard
comportamentali dai chiari colori del razzismo in
un
teorema ove
termini come "civiltà", "tradizione",
"concezione
della
morte e della vita", "livelli igienici", assumono
un
significato
contorto e
superficiale.
Ho
deciso di conoscere da solo la mia Africa o meglio la
mia
Somalia
cercando una difficile immunità dal giudizio
e
dall'interpretazione
di fatti e comportamenti nel rispetto
di
questa
terra e
della mia sola condizione di infermiere ignorante
rispetto
a
dottrine
antropologiche o
psicologiche.
Non mi
interessa cogliere le occasioni per convincermi che
i
"negri" fanno tutto
per "convenienza", non mi interessa
sapere
che
sono
intelligenti ma lavorano poco, che ridono di ogni cosa
e
non
bisogna mai
fidarsi.
Non mi
interessa la tua dottrina, medico esperto ma
razzista!
Non riesco a
sentirmi migliore rispetto a nessuno, nè ai
"negri"
ne
a te, cooperante
del cazzo, oggi esimio dottore e direttore
di
associazioni
umanitarie e ieri, non ancora
cristianamente
ravveduto, grande commerciante e proprietario di bananiere
e
comunque sempre
padrone di questo pezzo di mondo
"dai
discutibili
livelli d'igiene"!
Ma
troverò più in là la spazio tra queste memorie per
parlare
in
modo più
puntuale di armi e banane, di imprese e
strade
asfaltate:
forse insieme capiremo chi vuole la morte dei pellicani,
chi
vuole
sconvolgere questo silenzio con frastuoni di fabbriche
e
motori,
una volta
vanto delle colonie, oggi sfacciata volontà
di
denaro.
23 Giugno 1994.
Oggi è uscito il primo numero di un giornale locale
distribuito
in
copie gratuite a
Giowhar.
L'autore del
foglio è un giovanotto istruito, sempre in giro
con
una
macchina
fotografica ed un quaderno per appunti vecchio
e
sgualcito.
A volte ci
fa visita in ospedale ma a
giudicare
dall'accoglienza
degli infermieri, non sembra godere di grossa stima; non
parla
italiano
quindi è sempre seguito da un interprete che mi
ha
spiegato come il
giornale sia il risultato di un
progetto
finanziato,
volto a stimolare ed a diffondere informazione
ed
aggiornamenti
sullo stato di guerra al livello
locale.
Credo di aver
capito inoltre che con qualche dollaro
è
possibile
avere
in contropartita una buona citazione tra gli
articoli:
ogni
mondo è paese!
Ho
fatto dono al giornalista della mia macchina fotografica
e
di
qualche
rullino; ha appuntato il mio nome e cognome
sul
quaderno sgualcito
e mi ha stretto la mano a
lungo.
A parte queste
note di stampa poco alternativa, si dice da
più
parti che
comunque l'iniziativa è un buon segno, qualcosa
si
sta
muovendo
nella giusta direzione, tutti raccontano la
loro
stanchezza per
questa guerra che nessuno riesce a vincere
e
poi
c'è la
mediazione dell'imam, rispettata autorità religiosa,
che
da
alcuni giorni pare
abbia intrapreso contatti con i capi
delle
varie
fazioni
in lotta nel tentativo di contenere i contrasti
all'interno
della
più giusta e
nobile causa
dell'Islam.
L'UNOSOM
intanto sembra uscire dal torpore nel quale
era
precipitato ed ha
concesso quattro mesi a tutti i somali
per
partorire una
soluzione accettabile al problema; alla
scadenza
ogni tipo
di aiuto cesserà comunque vadano le
cose.
A me pare una
soluzione affrettata perché l'attuale
classe
dirigente, i
nuovi politici, i futuri architetti di pace, i
capo clan e
i
loro scagnozzi sono
eccellenti guerriglieri ma non sanno
leggere
e
scrivere.
C'è poi il
problema della polizia, istituita da poco per
volere
ed
impegno economico
ONU con compiti di salvaguardia
dell'ordine
pubblico
nelle città.
Il
reclutamento dei poliziotti avviene dietro segnalazione
del
Consiglio
degli Anziani, unica autorità localmente
riconosciuta,
e
gli uomini per nulla
addestrati, vestiti di divisa e cappello,
armi
e
munizioni, non hanno
forza necessaria per derimere alcun
tipo
di
conflitto,
essendo spesso legati ai contendenti da vincoli
di
parentela o
appartenenza clanica.
Succede allora di osservare come nelle scaramucce tra bande
di
giovani armati,
in lite per un tetto in lamiera o per un
generatore
di
corrente, la
polizia arrivi sempre con ragionato ritardo
e
comunque si limiti
ad inutili tentativi di
interposizione
verbale.
Qualche tempo fa addirittura due gruppi di poliziotti in
lite,
hanno
aperto
il fuoco tra di loro con il risultato di tre feriti dei
quali
uno
ancora in gravi
condizioni ed in cura presso di
noi
Lo stipendio
mensile di un "agente delle forze dell'ordine"
è
di
200 dollari
USA al mese.
Ma
torniamo al giornalino di
Giowhar.
Al di là di
qualche vignetta umoristica, di qualche accenno
ai
mondiali di
calcio con un tifo spudorato per il
Brasile,
l'impostazione è di forte critica nei confronti delle ONG
che
lavorano qui a
Giowhar: CEFA ed MSF vengono
fortemente
rimproverate per aver assunto personale non del luogo
ma
proveniente da
altre province.
So che
c'è del vero in queste accuse ma so anche che
il
reclutamento di
lavoratori locali non è cosa che possa
avvenire
in
moro libero da
condizionamenti.
La
materia è estremamente delicata e può originare
spiacevoli
ritorsioni da parte degli esclusi sino allo scontro a
fuoco.
L'accusa ad
INTERSOS è invece più grave e circostanziata (e
la
mia macchina
fotografica?): oltre ad una
critica
sull'organizzazione
dell'ospedale e del lavoro (turni estenuanti, paga
ridicola,
atteggiamenti troppo da "padrone" del personale
dirigenziale),
c'è
una denuncia sull'esistenza di una specie di fondo nero
che
INTERSOS userebbe
in segreto per comprare e rabbonire
vari
personaggi in
vista in città, allo scopo di poter
continuare
ad
operare senza difficoltà e pericolo
alcuno.
Insomma noi
tutti saremmo oggetto di un ricatto in ragione
del
quale si
sborserebbero diverse centinaia di dollari
non
giustificati
sotto nessuna voce di
bilancio.
Voglio
ricordare che è obbligo delle Associazioni stilare
un
bilancio di spese
perché le varie Istituzioni procedano
ai
finanziamenti
relativi.
E' possibile
che tangentopoli abbia allungato i suoi
malefici
tentacoli
sino a questa zona dell'Africa, certo è che io
non
dispongo di
nessuna prova certa e il rapporto che mi lega
ai
miei
compagni di
ventura è di tale sincerità ed amicizia che
sarei
pronto a giurare
sulla loro innocenza.
Mah, forse sino a giurare
no!
Intanto continuo
il mio lavoro, adesso più organizzato
ed
edificante;
registro i primi risultati, gli infermieri
hanno
più
consapevolezza rispetto al loro operato, gli ambienti sono
più
puliti, il
furto dei farmaci è notevolmente diminuito e poi
la
Somalia mi
piace e, chissà, forse io stesso piaccio a
lei.
29 Giugno 1994.
A
"Moga" è tornata la guerra: un gruppo di Aberghidir di
Aidid
che si
recava a Merca, città sotto il loro controllo, è
stato
duramente
attaccato da gruppi di Auadle e
Morosade.
Sono così
seguiti giorni di durissimi combattimenti tanto
da
far
scattare
l'allarme in tutte le associazioni che qui operano e
che,
in
virtù della
situazione prossima a precipitare, hanno
approntato
i
piani di
evacuazione. Per la verità Intersos non ha un vero
e
proprio piano di
evacuazione: proviamo così, a tavola
durante
il
pranzo,
ad ipotizzare situazioni fortemente critiche ed a
pensare
a
possibili vie di
fuga e ai mezzi disponibili; ma tutto
è
improvvisato
ed
ognuno di noi sa che in caso di pericolo prenderà la
via
del
destino più
che quella della fuga.
Mi conforta comunque il fatto che oggi si dica in giro che
la
situazione è più
tranquilla rispetto a ieri, si spara meno,
c'è
meno
trambusto ma non
mancano le "Cassandra" di turno,
voci
spettrali
e
iettatori che attribuiscono al silenzio non una
pace
imminente
ma,
al contrario, un presagio di guerra, l'annuncio
del
prossimo
scontro finale.
Provo
a pensare al peggio: dovrò morire o sarò la
vittima
succulenta di
un rapimento?
Avrò le
immagini al TG1, il servizio ove qualcuno
riassumerà
la
mia
vita, diverrò una specie di piccolo eroe, un Cocciolone
un
po'
meno fifone,
l'equivalente di un mucchio di dollari,
chissà
quanti,
la
ragione di lacrime familiari, di appelli
accorati.
E se invece
morirò colpito ai polmoni o alla testa da
una
raffica
secca e
precisa?
Ho paura di
soffrire il dolore delle ferite, ho davanti agli
occhi
i
feriti Somali che
giungono in ospedale macellati
dai
Kalashnikov,
con le budella in mano e l'aria che vien fuori dal torace
come
una
ruota
bucata.
La puzza del
sangue, la puzza inconfondibile, ho sempre
in
quei
momenti un
sapore dolciastro in bocca, caldo e
appiccicoso,
sempre
uguale, nei vecchi e nei bambini, nelle donne
durante
il
parto e
nei giovani ladri amputati
dall'Islam.
Ma chi
potrà avere il coraggio di farmi fuori, valgo di più
da
vivo,
quello che
qui conta sono i soldi e
basta.
La macabra
occasione del sangue appena citato mi spinge
a
riferirvi di un
episodio accaduto qualche tempo fa
in
ospedale.
Seinab
è una giovane e pingue infermiera in servizio presso
il
reparto di
chirurgia e ginecologia; è una ragazza gioviale e
un
pò
superficiale, ride
in continuazione, non capisce una
parola
d'italiano, o
per lo meno così dicono di lei, non lavora,
è
sempre
seduta con
qualche amica a confabulare, fa grossi gesti con
le
braccia, ha una
voce marcatamente maschile, rauca e corposa
ma
non l'ho mai
vista fumare. Le donne qui non fumano se non
di
nascosto.
Appartiene
non troppo fieramente all'etnia Morosade,
scherza
sulla guerra,
la considera una lunga lite tra stupidi e chissà
che
non
abbia
ragione.
Dormivo
ancora quando l'ho sentita bussare alla mia
porta,
erano
più o
meno le sette e quella voce rauca e maschile
ha
impiegato
un
certo tempo per consegnarmi ad una situazione di
piena
coscienza.
L'ho fatta
entrare e non si è scandalizzata nel vedermi
quasi
nudo
con le
sole mutande addosso; in un'altra circostanza
avrebbe
coperto i suoi
occhi e sarebbe fuggita via gridando
falsi
pudori.
Ha
cominciato a trascinarmi fuori indicandomi
l'ospedale,
toccandosi
ritmicamente la gamba poi il braccio poi di
nuovo
la
gamba.
Ho subito
capito che il problema riguardava una persona a
lei
cara, ho capito
anche che questa persona era in ospedale
ed
aspettava
me.
Ho impiegato
pochissimi minuti a metter su qualcosa
che
assomigliasse ad
un vestito e mi sono catapultato ancora
pieno
di
sonno,
all'inseguimento di Seinab che nel frattempo mi
era
fuggita
avanti
alla volta
dell'ospedale.
Ho
trovato un folto gruppo di gente ad aspettarmi,
parlano
tutti
insieme la lingua a me incomprensibile, qualcuno mi
spinge,
qualcun altro
mi tira a sè, io non capisco nulla e cerco
tra
quelli,
uno
sguardo amico, una parola
conosciuta.
Seinab con
la sua mole possente, si fa largo tra la folla
sino
a
creare una
specie di corridoio in fondo al quale vedo
un
ragazzo
avvolto
in una coperta, adagiato sofferente su di una
barella
militare.
Accanto a
lui riconosco il vecchio portinaio
dell'ospedale,
"amico
e fratello deli italiani", così ama definirsi
ruffianamente
sventolando
un coltellaccio dal manico d'osso che non fa paura a
nessuno.
Il portinaio
dopo aver zittito gli altri con la sua arma
innocua,
mi
racconta quello che
sta succedendo.
Il
giovane ferito è il fratello di Seinab, arriva da
Mogadiscio,
ha
viaggiato tutta la
notte, ha la gamba ed il braccio
amputati,
ha
bisogno di una medicazione ed una terapia antibiotica,
poi
chiamerò il
chirurgo, ora devo trovargli un letto, sistemarlo
in
una
stanza e
soprattutto mandar via tutta questa gente,
parenti
che
urlano
ed inveiscono contro non so chi, donne isteriche
e
vecchi
col
bastone e l'aria da saggi, forse rappresentanti
dell'etnia
Morosade o solo amici e
nemici.
Il fratello di
Seinab è un ladro.
Alcuni giorni fa, a Mogadiscio, ha rubato una catenina d'oro
ed
è
stato riconosciuto,
catturato ed accusato presso il
tribunale
islamico,
l'unica istituzione funzionante in Somalia di
questi
tempi.
Secondo la legge coranica ha subito una pena pari ad
una
manciata di
frustate e quindi l'amputazione di un braccio
ed
una
gamba perché
porti in maniera indelebile, il marchio
della
malefatta.
Il fratello
di Seinab è un ladro ed ora anche uno
storpio
incapace
di
camminare e per questo, in lacrime, mi ha chiesto
di
procurargli
una
protesi per potersi
muovere.
Gli ho
promesso che gliela farò arrivare dall'Italia, è
una
bugia,
non avrò
mai la sua gamba artificiale ma ora mi interessa
che
non
pianga,
m'interessa che si calmi e mi aiuti a
curargli
l'infezione.
Il tribunale islamico.
Il Kadi, una sorta di giudice supremo, grande
conoscitore
delle
leggi di Allah, Dio in terra, carnefice divino, il kadi
ha
sentenziato
già
diverse volte a Mogadisho; presso una piazza non di
rado
pendono da un
pilone braccia, gambe o teste mozzate in
bella
vista alla folla
acclamante.
La legge
di Dio sembra essere l'unica rispettata, si prega
sino
alla
nausea, si parla
male delle carni impure e dell'alcol eppure
si fa
la
guerra.
Sì, Allah
sembra chiudere un occhio a volte, è
tremendamente
irascibile di fronte ad un giovane ladro, è distratto al
cospetto
di
un morto
ammazzato.
Ho sempre
avuto una certa difficoltà a comprendere il
sapere
religioso pur
avendo ricevuto un'educazione
marcatamente
cattolica
ma qui assisto a cose da
pazzi!
Dio e
sangue.
Dove è la
ragione in questo strano
connubio?
Appello:
inviate una protesi al fratello di Seinab, sfidate
pure
il
volere di
Allah!
LORENZO
MARAVELLI