SOMALIA: Epilogo

 

8 giugno 1994.

          Sono spariti dal "magazzino-alimenti"  circa sessanta litri di
vino di
          qualità scadente, per intenderci quello contenuto in involucri
di
          carta che mia madre usa in cucina per insaporire i cibi in
cottura.
          Qui non beve nessuno o meglio, qui bere è rigorosamente
          immorale, contrario ai precetti coranici ma proprio per
questo,
          azione trasgressiva quindi cosa bella da fare di nascosto
magari in
          compagnia di qualche prostituta una volta maritata, oggi
vedova o
          ripudiata e costretta a vendersi per campare sè stessa , i
figli, i
          fratelli in armi ma nulla facenti ed i genitori ormai prossimi
alla
          morte.
          Ma torniamo ai fatti.
          I nostri sospetti, dopo qualche tentativo di depistaggio e
          finalmente condivisi dalle Autorià  locali (Governatorato e
          Commissariato di Polizia), hanno preso la strada che conduce
ai
          fidi "morian", gli indomiti agenti di sicurezza del campo
ospedale,
          evidentemente valorosi ma anche un pò ubriaconi o magari
          lungimiranti piccoli imprenditori, pronti a versare nel povero

         mercato di Giowhar, l'ormai famoso nettare degli dei.
          Li abbiamo chiamati a raccolta, capi compresi, presso il
tendone
          militare che ormai quasi per abitudine, ospita incontri di una
certa
          importanza tra personale locale e stranieri.
          Evidentemente già a conoscenza dell'accaduto, non hanno
          opposto resistenza alcuna quando sono stati informati che,
          qualora il vino non fosse tornato in mano ai legittimi
proprietari
          entro ventiquattro ore, la Direzione del campo avrebbe
          provveduto e senza tener conto della eventuale interferenza di

          notabili, anziani e via discorrendo, avrebbe provveduto
dicevo, al
          licenziamento delle guardie in servizio nel turno di notte, il

          momento del furto secondo noi.
          Voglio precisare il mio ruolo in queste controversie.
          Non ho mai preso parte attiva nelle varie discussione tra le
parti,
          sono sempre stato in un cantuccio a guardare; non che non
avessi
          cose da dire ma la mia difficoltà, e questa era cosa risaputa,
è
          sempre stata quella di parteggiare per il gruppo dei
"cooperanti".
          Come dire, mi tenevano da parte per evitare possibili guai,
          "bastone e carota con questi!", mi dicono al campo ed io il
          bastone non so neppure tenerlo in mano.
          Nel pomeriggio su richiesta del capo guardia si è tenuta una
          nuova riunione questa volta più concitata della precedente e
nella
          quale si sono fatti avanti  tra imprecazioni varie e grida di
          deplorazione dei Somali qui convenuti, due sedicenti colpevoli

          che un interprete ci ha riferito avrebbero addossato a loro
stessi
          la responsabilità dell'accaduto  portando a discolpa i figli
malati,
          la mamma in punto di morte, la fame, la guerra, insomma la
solita
          minestra che dalla Cina alle Americhe, ogni ladruncolo pescato
a
          rubare, prepara per chi si appresta a commisurargli una pena.
          Una somma pari ad un mese di stipendio, più o meno duecento
          dollari U.S.A., questa è stata l'ammenda.
          Non soddisfatto però, il piccolo esercito di guardie ha deciso
di
          spettacolarizzare l'accaduto incatenando, mani e piedi, i due
          poveracci ad un palo sito nel bel mezzo del piazzale del
campo: il
          paradigma delitto-giudizio-pena si è farcito così di quella
          componente drammatica che è di gran gusto ai forcaioli che
          sempre popolano i gruppi di balordi e violenti.
          Nessuno di noi è intervenuto: mai contrastare, qualcuno ci ha
          suggerito, delinquenti di tal risma, amici dei cammelli nella
          boscaglia ieri, guerriglieri al soldo del denaro e non delle
idee
          oggi!
          Eppure io credo, superata l'epica del "furto deplorevole" o
della
          "certezza della pena" e via via della valanga di cazzate che
ci
          hanno accompagnato a cena, nella quiete della riflessione, in
          compagnia della notte che tra non molto mi avvolgerà nelle sue

          braccia regalandomi sogni di pace e di sesso, eppure io credo
          che questa situazione di fame giustifichi ogni sorta di furto;
ho
          visto un tale, ieri  o ieri l'altro, carico di bottiglie di
plastica che noi
          buttiamo via dopo averle vuotate del contenuto, acqua o
          aranciata o Coca.
          Ebbene, ho saputo che ne esiste un commercio in città ed una
          bottiglia viene venduta al prezzo di mezzo dollaro U.S.A.
          Per farne cosa poi?
          Ho saputo anche dell'esistenza di ben sedici farmacie a
Giowhar;
          non esiste un sevizio sanitario nazionale, i farmaci sono
venduti
          senza ricetta e senza che il commerciante ne abbia competenza
          alcuna.
          Capita così di verificare l'ammanco dalla nostra farmacia di
          numerose scatole di antibiotico, lo stesso che pochi giorni
dopo il
          furto si riversa nelle case delle famiglie comuni a curare
poco più
          di niente come qualche giorno di stitichezza o un pò d'astenia
o
          addirittura una certa riduzione della libido in una giovane
coppia
          ancora in ritardo nella produzione in serie di figli... sì mi
è capitato
          d'appurare anche questo e mi è risultato pressoché impossibile

          spiegare l'inutilità e la velenosità di quelle pozioni,
ritenute invece
          magiche.
          Come da noi, anche qui tutto ha mercato, tutto ha un prezzo,
          persino le bambine o poco più che qualche "pappa" locale ti
          propone tra un sorriso beffardo ed una pacca sulla spalla, in
          cambio di un paio di scarpe con la suola di cuoio o
addirittura
          solo in nome di una "antica" amicizia che unirebbe i nostri
popoli.
          Ma quale amicizia, chi ti conosce, pappone musulmano!
          Così penso ma non dico, mi limito ad un sorriso di circostanza
e:
          "grazie ora no, magari un'altra volta, grazie comunque".
          Anch'io sono un pezzo ormai di questa guerra inutile, tutto si

          vende anche cose inutili e la guerra è la spinta propulsiva di

          questo "libero" mercato così uomini grassi vestono abiti
italiani e
          fumano sigari immensi vicino a bambini malnutriti, quasi nudi
ed
          ammalati, riversi vicino casa rassegnati e dimentichi d'ogni
sorta di
          gioco o divertimento.
          Per fortuna oggi le armi hanno taciuto ma, cosa strana, a noi
tutti
          è come se fosse mancato qualcosa, una canzone, una musica
          conosciuta e canticchiata da un pò per abitudine alla mattina
          appena svegli o di sera tra amici.
          Il silenzio dei mortai ha rumoreggiato nella quiete della
nostra
          normalità.
          Normalità!
          Un fucile in spalla ad un giovane adolescente è una parte del
suo
          abito, qualcosa senza la quale quello stesso giovane ci
          apparirebbe meno bello e affascinante, forse monco.
          A proposito di abiti, ecco pronta per la vostra curiosità
qualche
          notizia sulla moda Somala: stupende sono le stoffe che le
donne
          avvolgono ai loro corpi nei modi più strani, nascondendo
l'inizio e
          la fine di quel groviglio; i loro colori spesso chiamano a
sintonia
          quelli dei copricapi, anch'essi di stoffa e ben disposti a
coprire i
          folti capelli, elemento forse troppo femminile e precluso alla
vista
          degli uomini.
          Scoperte invece le mani ed i piedi, spesso tinteggiati o
addirittura,
          forse a comunicare una certa civetteria, adornati di disegni
anche
          complessi dai motivi floreali o a me indecifrabili; la tinta è
un
          preparato ricavato da una corteccia di un albero non presente
in
          Somalia. Presumo quindi che il cosmetico sia di importazione.
          Cadisha, un'infermiera del Pronto Soccorso, disegna cerchi
          concentrici sulle sue mani, mani che muove sempre con
eleganza,
          tenendo le dita , lunghe e affusolate, ben tese come se avesse
da
          far asciugare perennemente lo smalto; se è seduta, accavalla
le
          gambe con eleganza e naturalezza, scoprendo i piedi sino alle
          caviglie quasi a regalare un attimo di sensuale femminilità,
timida e
          casta. E' straordinariamente somala, ha la carnagione chiara,
gli
          occhi allungati e innocenti, le labbra carnose, il volto
allungato su
          alti zigomi; un velo nero le copre sempre il capo, qualche
volta il
          viso ed allora questa sua imperscrutabilità diviene regale,
          inaccessibile, immensamente elegante.
          E' sposata ad un uomo che non può amare poiché è via da
          tempo, a lavorare, lei dice, in Arabia Saudita. Ma Cadisha
porta
          bene la sua solitudine, ne nasconde il fuoco con serenità e le
sue
          mani, i suoi piedi così egregiamente tinti me la conducono in
          sogno mentre seduta, una gamba sull'altra, si colora il corpo
ora
          senza veli.

          Cadisha è morta di tubercolosi polmonare qualche tempo dopo il

          mio rientro definitivo in Italia; ci aveva tenuti all'oscuro
di questa
          sua condizione per non perdere il lavoro che amava veramente.
          Ha pagato quest'amore con la vita non avendo mai intrapreso
          alcun tipo di cura.
          -





          10 giugno 1994.

          Qualche cenno sulle etnie o tribù o, come dicono qui, cabile.
          So che ci sono gli Abgal, gli Awadle, gli Aberghidir, gli
Sciddle, i
          Galgel e tante altre.
          E' strano vederli così ferocemente in lotta tra loro ma non
divisi
          da alcuna motivazione ideologica o politica.
          E' strano ancora dover tener presente che la Somalia è uno dei

          pochi stati africani ove una è la lingua, appunto il Somalo,
una è la
          religione, l'Islam nella sua versione sunnita.
          Questa unità si disgrega però nel momento in cui sorge la
          necessità di dar vita  ad un potere.
          Dico un potere qualsiasi!
          Si arriva alle mani, anzi alle armi, per eleggere un
governatore o
          più semplicemente un commissario di polizia ma anche il capo
del
          personale in ospedale, il caposala, il cuoco responsabile
delle
          cucine del campo.
          C'è un livello di litigiosità tale tra la gente anche comune
che è
          possibile morire per un piccolo furto, per una manciata di
scellini
          somali che hanno più o meno il valore della nostra carta
igienica.
          Tutti vorrebbero comandare, rivestire ruoli importanti e di
          responsabilità ma nessuno vuole però essere comandato,
          sottostare ad un potere anche se minimo, insignificante.
          E mediare è cosa difficile perché tante sono le parti e
          praticamente nulla è la volontà comune di pace.
          Nessuno inoltre ha uno spiccato interesse a che questa storia
          finisca una volta per tutte: forse la "Cooperazione" che per
          decenni ha fabbricato e promosso dittature compiacenti e
garanti
          del rientro  "a casa"  di parti consistenti degli aiuti
stanziati?
          O forse le Associazioni Umanitarie non governative (N.G.O.)
che
          hanno fatto di queste terre nuove colonie?
          Qui oltre alla morte ci sono i soldi, quelli veri non gli
Scellini
          somali, quelli che fanno gola agli uomini della politica,
degli affari,
          delle ideologie, delle varie mafie, delle religioni.
          Ma torniamo al nostro "Ospedale Italia" come qualche zelante
          operaio ha scritto in vernice rossa sulla facciata d'ingresso
dello
          stabile a due piani, bianco e pieno di finestre senza vetri,
          circondato da piante e fiori giovani che qualcuno sta curando
          quasi a propiziarsi un "nuovo"  che sia un pò migliore del
          "vecchio".
          Si contano una cinquantina di posti letto in totale,
distribuiti in
          stanze da quattro o cinque posti letto ciascuna; i bagni sono
          pochissimi, sporchissimi ma ci sono.
          Ogni piano ha un ambulatorio che funziona un pò da centro di
          raccolta del materiale ospedaliero che si cerca di tener
          raggruppato per poterlo controllare meglio ed evitare che
venga
          rubato.
          Conservo i farmaci in armadietti di ferro chiusi con
lucchetti; ne
          tiro fuori quotidianamente una parte a seconda delle necessità
ma
          questa cura non ne impedisce il continuo furto da parte di
alcuni
          infermieri.
          Non amo questo ruolo da maresciallo di caserma, non mi piace
          tenere tutto sotto chiave, non sono oggetti di mia proprietà,
          vaffanculo agli infermieri con le mani lunghe!
          Gli infermieri.
          Percepiscono uno stipendio di 80 dollari U.S.A. mensili e sono

          stati reclutati all'epoca della gestione dei militari italiani
secondo
          logiche a noi tanto care, di favori e raccomandazioni.
          Nessuno si è mai preoccupato di effettuare un minimo di
          formazione e per questo il personale è assai scadente,
          demotivato, spesso ingiustificatamente assente dal lavoro o
          pescato a dormire durante i turni diurni e notturni.
          Alcuni tra loro sono dispettosi e vendicativi nei nostri
confronti,
          altri ripropongono in ospedale le dinamiche tribali creando
odio e
          divisione tra colleghi, altri ancora mostrano un timido
interesse ma
          nulla di più.
          Tutti non hanno coscienza del fatto che l'ospedale verrà
presto
          gestito completamente da loro, tutti credono di operare in una

          struttura straniera, alle dipendenze di gente straniera,
nessuno
          ipotizza un futuro professionale possibile, nessuno crede di
dover
          imparare la propria professione.
          Gli orari di lavoro, distribuiti in due turni giornalieri, uno
diurno ed
          uno notturno, non sono certo una conquista sindacale
          (8,30-17,30 di giorno e 17,30-8,30 di notte!) ma rispondono ad

          una chiara necessità di "tagliare " sul personale e sui costi
in
          generale da parte  di Intesos, in questo caso vero e proprio
          "datore" di lavoro.
          Lontano circa duecento metri dall'ospedale, appena dopo
piccoli
          appezzamenti coltivati a pomodori, melanzane, zucchine ed
affini,
          tutte figlie straniere di semi venuti dall'Italia per mano di
previdenti
          infermieri e medici volontari, al di là di un muretto ove
bambini
          attendono niente come uccelli sul ramo di un albero, sta un
          edificio da poco restaurato ed adibito a mensa per il
personale
          dell'ospedale.
          I dipendenti vi si recano a turno a consumare pasti per la
verità
          poco sostanziosi ma sufficienti per immaginare, noi e loro, un

          abbozzo di "walfare", un pezzo d'Emilia qui, in una terra
priva di
          spina dorsale ed in mano a moti d'istinti animali.
          Una scodella di riso o polenta sposata ad un pezzo di manzo,
poi
          una banana, e così tutti i giorni nella speranza di variazioni

          inaspettate di menu o magari sorprese come in un gioco a
premio,
          qualche galletta, una razione K dei militari italiani, un
pacchetto di
          caramelle; il cuoco deve avere un bel da fare in cucina tra
          pentoloni luridi e bruciati dalle fiamme di un forno privo di
cappa
          e le mosche che sembrano divorare ogni cosa qui dentro, sono
          come impazzite al profumo sconosciuto del cibo.
          Ho assaggiato del riso dalle mani del cuoco che fiero mi
mostra la
          carne bollire come a voler gridare un ritrovato benessere in
          quest'angolo di Somalia, protetto e lontano dal resto.
          Osservo ma non rido con gli altri, no, questa gente in fila,
in attesa
          con in mano la scodella di metallo, questa gente che a turno
siede
          nella sala da pranzo buia, sporca, angusta, piena di mosche,
          questa gente sempre petulante e ciarliera ed ora in silenzio
ad
          aspettare del riso privo di salsa, questa gente mi rattrista
un
          casino e penso a delle posate, una forchetta, un cucchiaio.









          14 Giugno 1994.

          Questa notte abbiamo avuto un'emergenza.
          Una ragazza, poco più di quindici anni, è stata accompagnata
in
          Pronto Soccorso verso l'una: presentava una frattura esposta
          della tibia con un'ampia ferita sui due lati della gamba.
          Ha perso molto sangue, abbiamo speso ogni nostra energia per
          tamponare l'emorragia.
          Forse verrà amputata o forse no.
          Deciderà Allah o qualcun altro.
          Il destino del suo arto malconcio è legato alla possibilità
che arrivi
          un chirurgo, tale dottor Abdullai, dalla martoriata
Mogadiscio.
          La meccanica dell'incidente è spaventosa: cinque giovani dopo
          aver consumato con lei the e droga, erba da masticare o da
          fumare, le hanno chiesto del sesso; la ragazza ha avuto la
forza di
          negare questa performance e resistere ai maneggiamenti che si
          sono susseguiti sino a quando il più fuori di testa del gruppo
o
          forse più semplicemente il più cretino, ha esploso con il suo
          "giocattolo" una manciata di proiettili a terra.
          Il risultato del "supremo" atto di forza è stata la
macellazione
          dell'arto che noi con rabbia e dedizione, ma soprattutto
rabbia,
          stiamo cercando di salvare.
          Ho conosciuto i suoi genitori, la madre ha qualche anno più di
lei,
          non molti per la verità, il padre sembra invece suo nonno
secondo
          una consuetudine che offre agli uomini e non alle donne la
          possibilità di scegliersi la compagna, magari di trenta anni
più
          giovane, senza che questa possa esprimere il proprio dissenso.

          Ora mi vien voglia di divagare su questo tema e magari di
          pensarmi in diritto forse religioso di sposare una bambina,
          un'amica di mio figlio; mi vien voglia di capire ma non
riesco,
          sono qui da troppo poco tempo per ragionare d'amore.
          Torno allora ai fatti: la madre bambina della figlia vittima
bambina.
          Poi dirò del vecchio capofamiglia padre.
          Ho già detto una madre giovane, quasi una sorella maggiore,
          avvolta in un telo sgargiante ed annodato, dopo alcune curve,
          dietro il collo; ha il volto rigato ripetutamente da lacrime
ad
          espressione di una silenziosa sofferenza ma ben lungi dalla
          protesta, dalla rivolta nei confronti di un potere, quello
maschile,
          che qui è opprimente, straripante, sempre violento.
          La osservo mentre attende l'esito dell'intervento, non
sappiamo
          ancora se la ragazza conserverà la sua gamba; a volte cerca
con
          lo sguardo me o un'infermiera o il medico ma ci manca il
coraggio
          per affrontare quegli occhi ed allora ci indaffariamo
maggiormente
          chiedendo materiale più pulito, garze di grandezza maggiore
per
          raccogliere il sangue copioso o più semplicemente qualcuno che

          ci asciughi il sudore che ci riga la fronte.
          Qualcuno curiosamente si avvicina e viene subito ricacciato
fuori
          a grossa voce: la curiosità per fatti così tragici ci irrita
oltremodo,
          anzi questa rabbia che ci attanaglia, questa aggressività che
          avrebbe come giusto sfogo quel gruppo di balordi, vien fuori
          ingiustificatamente contro questi incolpevoli curiosi ammalati
solo
          di petulanza e niente più.
          Finalmente il padre in compagnia di un membro del   "consiglio

          degli anziani": lunghe barbe, andature solenni, il più anziano

          completa la sua presenza con un bastone ben lavorato forse
          espressione di "legge" o "giustizia" futura o forse solo un
semplice
          sostegno ad un corpo violentato dall'artrosi e dagli anni.
          Ci dicono che hanno bisogno di vedere la ragazza per
          quantificare con precisione i danni; un interprete accenna a
mezza
          bocca la parola "soldi", forse il tutto avrà come epilogo un
          semplice risarcimento?
          Dio Santo! Continuo a vivere le situazioni come se mi trovassi
in
          Italia, mi vien voglia di gridare: "Ma perchè non rompete il
culo a
          quegli stronzi che hanno sparato!"
          Mi limito ad impedire che la premiata coppia entri in sala
          operatoria adesso, adducendo a reali ed ovvi motivi di
possibile
          contaminazione del campo operatorio; la ragazza inoltre è
sotto
          Ketalar, l'anestetico che ci consente di operare, quindi non
          potrebbe comunque testimoniare alcunché.
          I "vecchi" intendono e si accomodano al centro di una piccola
          folla curiosa che parla e gesticola animosamente forse ad
          esprimere solidarietà o magari quel desiderio di vendetta che
li
          renderebbe a me più fratelli.
          Di nuovo in sala operatoria: la ferrista, Alima, è zuppa di
sudore
          ma si muove con sicurezza e senza tradire fatica; c'è Dadow,
          l'anestesista, o meglio l'aspirante tale: conosce bene
l'inglese,
          meno l'italiano, ha poco più di vent'anni ma già grossa
esperienza.
          E' assai volenteroso, ha un desiderio irrefrenabile di
imparare il
          mestiere, mi chiede continuamente dell'Italia, della
possibilità di
          venirci a studiare ed a lavorare ma come faccio a spiegargli
dei
          "vu' cumprà", della droga e della prostituzione, degli affitti

          esorbitanti e di Villa Literno coi pomodori e i Caporali, come

          faccio a parlargli dei naziskin, delle botte e della Caritas,
dei
          Murazzi di Torino e di Don Ciotti e il Gruppo Abele.
          Addow non conosce queste cose, ha solo voglia di imparare il
          suo mestiere.
          Ho promesso di aiutarlo, prima o poi; Addow sorride, questo lo

          ha capito, non lo farò mai, un giorno tornerò in Italia e lo
          dimenticherò, come hanno fatto tutti quelli che sono venuti
qui ed
          hanno promesso il mondo ma poi...
          Alima e Addow compongono lo staff fisso della sala operatoria,

          gli infermieri invece girano a turno e comunque qui dentro non
si
          occupano di cose importanti se non di tenere fermi i pazienti,

          preparare materiale vario necessario durante l'intervento,
          impedire agli estranei di fare ingresso in sala.
          L'ambiente è ampio e luminoso, abbiamo una buona lampada ed
          un buon tavolo operatorio, siamo a corto di ferri chirurgici
          avendo poca possibilità di sostituirli.
          L'autoclave per sterilizzare il materiale di sala ci consente
un
          operato accettabile e un buon grado d'igiene anche se risulta
          sempre difficile far capire alla svogliata ausiliaria del
piano terra
          che la sala operatoria ha priorità assoluta e soprattutto che
questa
          stessa richiede una cura particolare: la vecchia donna sorride
ed
          alza il braccio come a dire "piano, piano se Dio vuole!", poi
di
          nuovo seria continua nelle sue cose infischiandosene di quanto

          appena detto.
          Ogni addetto che entra in sala, toglie le scarpe appena sulla
porta
          ed indossa delle ciabatte di gomma sempre pulite; non è
          consentito avvicinare il tavolo senza reali motivi.
          Poche volte lavoro in sala operatoria, non mi piacciono i
chirurghi
          e la chirurgia, non mi piace la rudezza dei comportamenti, non
mi
          piace tagliare e cucire, odio il caldo opprimente e il sudore,

          eppure ora sono qui, in emergenza, camice, guanti e
mascherina,
          di notte; qui nel tentativo di salvare la gamba alla ragazza.
          In tre ore il chirurgo riesce a venire a capo della
situazione,
          l'intervento è finito, disinfetto e dispongo la doccia gessata
al di
          sotto dell'arto cucito: ora c'è da aspettare e sperare,
"ishallah"
          dicono tutti guardando il cielo, "ishallah" dico io con poca
          convinzione, "ishallah" dice la ragazza appena appena sveglia
          sotto il ceffone affettuoso di Addow, "ishallah" dice Allah
          osservandoci tutti da su!
          Ora il mio desiderio di vendetta sembra quasi soffocato,
          l'intervento è riuscito, sono quasi felice, è tardi, sarà il
sonno,
          guardo il cielo pieno di stelle, qui seduto appena fuori
l'ospedale;
          mando giù una Coca e, distratto, accetto un po' d'erba da
          masticare da una guardia notturna che mi guarda e ride col
mento
          sulle ginocchia ed il Kalashnicov a fianco.
          Sono calmo e rilassato e mi godo questa insolita frescura
lottando
          fiacco contro migliaia di zanzare.
          Riuscirò mai a dimenticare quell'abito dilaniato, il terriccio

          cosparso sul volto, i lamenti, il sangue, il sangue
soprattutto col
          suo odore dolciastro che conservo ancora in gola e nei
confronti
          del quale neppure la chimica di questa Coca-Cola può far
nulla?










          19 Giugno 1994.

          L'arrivo di un numero impressionante di pellicani nella zona
          appena inondata dalle acque del fiume Shebelle in piena, è
stata
          occasione di uscita dal campo.
          Il fiume straripato dal suo letto naturale a causa di possenti

          alluvioni, ha prepotentemente disegnato un paesaggio
fantastico e
          finora sconosciuto ai miei occhi; l'acqua non ha risparmiato
          proprio nulla: case, alberi, terreni coltivati, tutto appare
nelle sue
          parti terminali, quelle più vicine al cielo
          Non sono un esperto e di fronte a così tanta vegetazione i
miei
          occhi curiosi ed inconsapevoli si muovono come quelli di un
          bambino per la prima volta davanti ad un paese di balocchi.
          Dei fiori bianchi, forse ninfee, galleggiano sulle loro barche
di
          foglia larga e poi una infinità di alberi rigogliosi gonfi di
frutti
          colorati e dalle strane forme.
          Nelle zone ove l'acqua è più bassa, stanno a sentinella
immobili
          coccodrilli che sembrano presidiare questo paradiso a difesa
di
          trampolieri dalle esili zampe ed ancora ibis, fenicotteri e
chiassosi
          volatili affamati di pesce e per questo continuamente in
picchiate
          sulle docili acque.
          Simpatico è il martin pescatore vestito d'un abito eccentrico,
poi
          anatre e corvi dalle piume sgargianti che riposano stanchi su
un
          albero, grazie a loro colorato di blu.
          Tutto questo non ha mai abitato i miei sogni o pensieri, fino
ad
          oggi ero ignaro di così tanti colori, sfumature, luccichii,
come
          miraggi di un eden irreale ove ogni cosa è ferma o si muove
          anarchica e non governata da forze o leggi o motori.
          Così mi appaiono anche i solitari contadini che all'asciutto
          muovono pigramente qualche zolla di terra o alcuni pastori che

          guardano fissi ma senza alcun interesse il loro patrimonio
sparuto
          di capre o vacche magrissime o ruminanti cammelli.
          Le abitazioni immediatamente fuori la città, sono capanne di
legno
          e fango costruite senza eccessiva dovizia, le une vicino alle
altre,
          così quasi ad abbozzare quartieri di città che verranno ed
oggi
          soltanto poverissimi villaggi.
          Uscire dal campo non ha affatto mutato il mio stato d'animo;
          qualcuno mi crede depresso e per questo promuove improbabili
          assunzioni di pillole della felicità così tanto di moda in
Italia.
          I miei inspiegati silenzi, la mia voglia di solitudine, questa
mia
          condizione di antipatica asocialità non è affatto lo spettro
          nascosto che divora vita ed energia, non sono depresso ma...
          come in assenza di ogni tipo di moto, fisico ed interiore;
vivo una
          sorta di pace senza parole, di fissità di sguardi e pensieri,
di
          inconscia rinuncia al pianto e al riso, acceso al minimo del
solo
          metabolismo basale.
          Vivo una specie si "somalità" che mi accomuna alla gente
normale
          disinteressata alla guerra, al cibo, alla morte; conduco una
          esistenza simbiotica con l'Ospedale ove trascorro la maggior
          parte del mio tempo anche senza far nulla, fuggo dai meeting o

          dalle cene di rappresentanza con scuse banali, annoio nei
          momenti di svago con il personale italiano, mi irrita il
discorso del
          medico bianco che vanta la sua conoscenza dell'Africa
          bombardandola di etichette e luoghi comuni e proponendo
          standard comportamentali dai chiari colori del razzismo in un
          teorema  ove termini come "civiltà", "tradizione", "concezione

          della morte e della vita", "livelli igienici", assumono un
significato
          contorto e superficiale.
          Ho deciso di conoscere da solo la mia Africa o meglio la mia
          Somalia cercando  una difficile immunità dal giudizio e
          dall'interpretazione di fatti e comportamenti nel rispetto di
questa
          terra e della mia sola condizione di infermiere ignorante
rispetto a
          dottrine antropologiche o psicologiche.
          Non mi interessa cogliere le occasioni per convincermi che i
          "negri" fanno tutto per "convenienza", non mi interessa sapere
che
          sono intelligenti ma lavorano poco, che ridono di ogni cosa e
non
          bisogna mai fidarsi.
          Non mi interessa la tua dottrina, medico esperto ma razzista!
          Non riesco a sentirmi migliore rispetto a nessuno, nè ai
"negri" ne
          a te, cooperante del cazzo, oggi esimio dottore e direttore di

          associazioni umanitarie e ieri, non ancora cristianamente
          ravveduto, grande commerciante e proprietario di bananiere e
          comunque sempre padrone di questo pezzo di mondo "dai
          discutibili livelli d'igiene"!
          Ma troverò più in là la spazio tra queste memorie per parlare
in
          modo più puntuale di armi e banane, di imprese e strade
asfaltate:
          forse insieme capiremo chi vuole la morte dei pellicani, chi
vuole
          sconvolgere questo silenzio con frastuoni di fabbriche e
motori,
          una volta vanto delle colonie, oggi sfacciata volontà di
denaro.









          23 Giugno 1994.

          Oggi è uscito il primo numero di un giornale locale
distribuito in
          copie gratuite a Giowhar.
          L'autore del foglio è un giovanotto istruito, sempre in giro
con una
          macchina fotografica ed un quaderno per appunti vecchio e
          sgualcito.
          A volte ci fa visita in ospedale ma a giudicare
dall'accoglienza
          degli infermieri, non sembra godere di grossa stima; non parla

          italiano quindi è sempre seguito da un interprete che mi ha
          spiegato come il giornale sia il risultato di un progetto
finanziato,
          volto a stimolare ed a diffondere informazione ed
aggiornamenti
          sullo stato di guerra al livello locale.
          Credo di aver capito inoltre che con qualche dollaro è
possibile
          avere in contropartita una buona citazione tra gli articoli:
ogni
          mondo è paese!
          Ho fatto dono al giornalista della mia macchina fotografica e
di
          qualche rullino; ha appuntato il mio nome e cognome sul
          quaderno sgualcito e mi ha stretto la mano a lungo.
          A parte queste note di stampa poco alternativa, si dice da più

          parti che comunque l'iniziativa è un buon segno, qualcosa si
sta
          muovendo nella giusta direzione, tutti raccontano la loro
          stanchezza per questa guerra che nessuno riesce a vincere e
poi
          c'è la mediazione dell'imam, rispettata autorità religiosa,
che da
          alcuni giorni pare abbia intrapreso contatti con i capi delle
varie
          fazioni in lotta nel tentativo di contenere i contrasti
all'interno della
          più giusta e nobile causa dell'Islam.
          L'UNOSOM intanto sembra uscire dal torpore nel quale era
          precipitato ed ha concesso quattro mesi a tutti i somali per
          partorire una soluzione accettabile al problema; alla scadenza

          ogni tipo di aiuto cesserà comunque vadano le cose.
          A me pare una soluzione affrettata perché l'attuale classe
          dirigente, i nuovi politici, i futuri architetti di pace, i
capo clan e i
          loro scagnozzi sono eccellenti guerriglieri ma non sanno
leggere e
          scrivere.
          C'è poi il problema della polizia, istituita da poco per
volere ed
          impegno economico ONU con compiti di salvaguardia dell'ordine
          pubblico nelle città.
          Il reclutamento dei poliziotti avviene dietro segnalazione del

          Consiglio degli Anziani, unica autorità localmente
riconosciuta, e
          gli uomini per nulla addestrati, vestiti di divisa e cappello,
armi e
          munizioni, non hanno forza necessaria per derimere alcun tipo
di
          conflitto, essendo spesso legati ai contendenti da vincoli di
          parentela o appartenenza clanica.
          Succede allora di osservare come nelle scaramucce tra bande di

          giovani armati, in lite per un tetto in lamiera o per un
generatore di
          corrente, la polizia arrivi sempre con ragionato ritardo e
          comunque si limiti ad inutili tentativi di interposizione
verbale.
          Qualche tempo fa addirittura due gruppi di poliziotti in lite,
hanno
          aperto il fuoco tra di loro con il risultato di tre feriti dei
quali uno
          ancora in gravi condizioni ed in cura presso di noi
          Lo stipendio mensile di un "agente delle forze dell'ordine" è
di
          200 dollari USA al mese.
          Ma torniamo al giornalino di Giowhar.
          Al di là di qualche vignetta umoristica, di qualche accenno ai

          mondiali di calcio con un tifo spudorato per il Brasile,
          l'impostazione è di forte critica nei confronti delle ONG che
          lavorano qui a Giowhar: CEFA ed MSF vengono fortemente
          rimproverate per aver assunto personale non del luogo ma
          proveniente da altre province.
          So che c'è del vero in queste accuse ma so anche che il
          reclutamento di lavoratori locali non è cosa che possa
avvenire in
          moro libero da condizionamenti.
          La materia è estremamente delicata e può originare  spiacevoli

          ritorsioni da parte degli esclusi sino allo scontro a fuoco.
          L'accusa ad INTERSOS è invece più grave e circostanziata (e la

          mia macchina fotografica?): oltre ad una critica
sull'organizzazione
          dell'ospedale e del lavoro (turni estenuanti, paga ridicola,
          atteggiamenti troppo da "padrone" del personale dirigenziale),
c'è
          una denuncia sull'esistenza di una specie di fondo nero che
          INTERSOS userebbe in segreto per comprare e rabbonire vari
          personaggi in vista in città, allo scopo di poter continuare
ad
          operare senza difficoltà e pericolo alcuno.
          Insomma noi tutti saremmo oggetto di un ricatto in ragione del

          quale si sborserebbero diverse centinaia di dollari non
giustificati
          sotto nessuna voce di bilancio.
          Voglio ricordare che è obbligo delle Associazioni stilare un
          bilancio di spese perché le varie Istituzioni procedano ai
          finanziamenti relativi.
          E' possibile che tangentopoli abbia allungato i suoi malefici
          tentacoli sino a questa zona dell'Africa, certo è che io non
          dispongo di nessuna prova certa e il rapporto che mi lega ai
miei
          compagni di ventura è di tale sincerità ed amicizia che sarei
          pronto a giurare sulla loro innocenza.
          Mah, forse sino a giurare no!
          Intanto continuo il mio lavoro, adesso più organizzato ed
          edificante; registro i primi risultati, gli infermieri hanno
più
          consapevolezza rispetto al loro operato, gli ambienti sono più

          puliti, il furto dei farmaci è notevolmente diminuito e poi la

          Somalia mi piace e, chissà, forse io stesso piaccio a lei.









          29 Giugno 1994.

          A "Moga" è tornata la guerra: un gruppo di Aberghidir di Aidid

          che si recava a Merca, città  sotto il loro controllo, è stato

          duramente attaccato da gruppi di Auadle e Morosade.
          Sono così seguiti giorni di durissimi combattimenti tanto da
far
          scattare l'allarme in tutte le associazioni che qui operano e
che, in
          virtù della situazione prossima a precipitare, hanno
approntato i
          piani di evacuazione. Per la verità Intersos non ha un vero e
          proprio piano di evacuazione: proviamo così, a tavola durante
il
          pranzo, ad ipotizzare situazioni fortemente critiche ed a
pensare a
          possibili vie di fuga e ai mezzi disponibili; ma tutto è
improvvisato
          ed ognuno di noi sa che in caso di pericolo prenderà la via
del
          destino più che quella della fuga.
          Mi conforta comunque il fatto che oggi si dica in giro che la
          situazione è più tranquilla rispetto a ieri, si spara meno,
c'è meno
          trambusto ma non mancano le "Cassandra" di turno, voci
spettrali
          e iettatori che attribuiscono al silenzio non una pace
imminente
          ma, al contrario, un presagio di guerra, l'annuncio del
prossimo
          scontro finale.
          Provo a pensare al peggio: dovrò morire o sarò la vittima
          succulenta di un rapimento?
          Avrò le immagini al TG1, il servizio ove qualcuno riassumerà
la
          mia vita, diverrò una specie di piccolo eroe, un Cocciolone un
po'
          meno fifone, l'equivalente di un mucchio di dollari, chissà
quanti,
          la ragione di lacrime familiari, di appelli accorati.
          E se invece morirò colpito ai polmoni o alla testa da una
raffica
          secca e precisa?
          Ho paura di soffrire il dolore delle ferite, ho davanti agli
occhi i
          feriti Somali che giungono in ospedale macellati dai
Kalashnikov,
          con le budella in mano e l'aria che vien fuori dal torace come
una
          ruota bucata.
          La puzza del sangue, la puzza inconfondibile, ho sempre in
quei
          momenti un sapore dolciastro in bocca, caldo e appiccicoso,
          sempre uguale, nei vecchi e nei bambini, nelle donne durante
il
          parto e nei giovani ladri amputati dall'Islam.
          Ma chi potrà avere il coraggio di farmi fuori, valgo di più da
vivo,
          quello che qui conta  sono i soldi e basta.
          La macabra occasione del sangue appena citato mi spinge a
          riferirvi di un episodio accaduto qualche tempo fa in
ospedale.
          Seinab è una giovane e pingue infermiera in servizio presso il

          reparto di chirurgia e ginecologia; è una ragazza gioviale e
un pò
          superficiale, ride in continuazione, non capisce una parola
          d'italiano, o per lo meno così dicono di lei, non lavora, è
sempre
          seduta con qualche amica a confabulare, fa grossi gesti con le

          braccia, ha una voce marcatamente maschile, rauca e corposa ma

          non l'ho mai vista fumare. Le donne qui non fumano se non di
          nascosto.
          Appartiene non troppo fieramente all'etnia Morosade, scherza
          sulla guerra, la considera una lunga lite tra stupidi e chissà
che non
          abbia ragione.
          Dormivo ancora quando l'ho sentita bussare alla mia porta,
erano
          più o meno le sette e quella voce rauca e maschile ha
impiegato
          un certo tempo per consegnarmi ad una situazione di piena
          coscienza.
          L'ho fatta entrare e non si è scandalizzata nel vedermi quasi
nudo
          con le sole mutande addosso; in un'altra circostanza avrebbe
          coperto i suoi occhi e sarebbe fuggita via gridando falsi
pudori.
          Ha cominciato a trascinarmi fuori indicandomi l'ospedale,
          toccandosi ritmicamente la gamba poi il braccio poi di nuovo
la
          gamba.
          Ho subito capito che il problema riguardava una persona a lei
          cara, ho capito anche che questa persona era in ospedale ed
          aspettava me.
          Ho impiegato pochissimi minuti a metter su qualcosa che
          assomigliasse ad un vestito e mi sono catapultato ancora pieno
di
          sonno, all'inseguimento di Seinab che nel frattempo mi era
fuggita
          avanti alla volta dell'ospedale.
          Ho trovato un folto gruppo di gente ad aspettarmi, parlano
tutti
          insieme la lingua a me incomprensibile, qualcuno mi spinge,
          qualcun altro mi tira a sè, io non capisco nulla e cerco tra
quelli,
          uno sguardo amico, una parola conosciuta.
          Seinab con la sua mole possente, si fa largo tra la folla sino
a
          creare una specie di corridoio in fondo al quale vedo un
ragazzo
          avvolto in una coperta, adagiato sofferente su di una barella
          militare.
          Accanto a lui riconosco il vecchio portinaio dell'ospedale,
"amico
          e fratello deli italiani", così ama definirsi ruffianamente
sventolando
          un coltellaccio dal manico d'osso che non fa paura a nessuno.
          Il portinaio dopo aver zittito gli altri con la sua arma
innocua, mi
          racconta quello che sta succedendo.

          Il giovane ferito è il fratello di Seinab, arriva da
Mogadiscio, ha
          viaggiato tutta la notte, ha la gamba ed il braccio amputati,
ha
          bisogno di una medicazione ed una terapia antibiotica, poi
          chiamerò il chirurgo, ora devo trovargli un letto, sistemarlo
in una
          stanza e soprattutto mandar via tutta questa gente, parenti
che
          urlano ed inveiscono contro non so chi, donne isteriche e
vecchi
          col bastone e l'aria da saggi, forse rappresentanti dell'etnia

          Morosade o solo amici e nemici.
          Il fratello di Seinab è un ladro.
          Alcuni giorni fa, a Mogadiscio, ha rubato una catenina d'oro
ed è
          stato riconosciuto, catturato ed accusato presso il tribunale
          islamico, l'unica istituzione funzionante in Somalia di questi
tempi.
          Secondo la legge coranica ha subito una pena pari ad una
          manciata di frustate e quindi l'amputazione di un braccio ed
una
          gamba perché porti in maniera indelebile, il marchio della
          malefatta.
          Il fratello di Seinab è un ladro ed ora anche uno storpio
incapace
          di camminare e per questo, in lacrime, mi ha chiesto di
procurargli
          una protesi per potersi muovere.
          Gli ho promesso che gliela farò arrivare dall'Italia, è una
bugia,
          non avrò mai la sua gamba artificiale ma ora mi interessa che
non
          pianga, m'interessa che si calmi e mi aiuti a curargli
l'infezione.
          Il tribunale islamico.
          Il Kadi, una sorta di giudice supremo, grande conoscitore
delle
          leggi di Allah, Dio in terra, carnefice divino, il kadi ha
sentenziato
          già diverse volte a Mogadisho; presso una piazza non di rado
          pendono da un pilone braccia, gambe o teste mozzate in bella
          vista alla folla acclamante.
          La legge di Dio sembra essere l'unica rispettata, si prega
sino alla
          nausea, si parla male delle carni impure e dell'alcol eppure
si fa la
          guerra.
          Sì, Allah sembra chiudere un occhio a volte, è tremendamente
          irascibile di fronte ad un giovane ladro, è distratto al
cospetto di
          un morto ammazzato.
          Ho sempre avuto una certa difficoltà a comprendere il sapere
          religioso pur avendo ricevuto un'educazione marcatamente
          cattolica ma qui assisto a cose da pazzi!
          Dio e sangue.
          Dove è la ragione in questo strano connubio?
          Appello: inviate una protesi al fratello di Seinab, sfidate
pure il
          volere di Allah!


LORENZO MARAVELLI

 

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