Questione di Tempi.

Lorenzo Marvelli

Esiste un tempo necessario al sangue per solidificare o, diremo meglio noi infermieri, per coagulare.

Questo è un tempo acuto o per dirla come un attore di teatro, questo è un tempo assolutamente drammatico, un tempo in cui il pubblico è lì lì per trasalire; un attore direbbe che quello è il tempo in cui il Riccardo shakespeariano troverebbe la voce per gridare “Il mio regno, il mio regno per un cavallo!”.

Nei tempi della coagulazione sanguigna in genere si è ancora concentrati sul trauma che ha cagionato la soluzione di continuo ed inoltre la frequenza cardiaca è elevata, uno stato di panico e di allarme determinano un quadro psicologico che un attore di teatro non farebbe difficoltà a raccontare nei panni di un Otello disperato e prossimo alla morte.

Attori, infermieri, pazienti...

Questo strano prologo mi sarà utile non per dissertare sulla coagulazione del sangue, argomento che mi vedrebbe peraltro certamente impreparato.

Non ho intenzione neppure di ragionare di teatro e di attori, luoghi questi complicati e spinosi, tutto sommato una sorta d’intreccio caotico che le piastrine disegnano per arrestare gli eritrociti che vogliono cambiare aria.

Userò invece lo strano prologo per raccontare di un infermiere tra gli infermieri o meglio, di un paziente di professione infermiere e di infermieri di professione infermieri.

Racconterò del mio ferimento a Genova nel Luglio scorso, del mio trasporto in ambulanza 118 in ospedale e della mia breve ma intensa permanenza all’Ospedale Galliera della medesima città.


Lorenzo Marvelli in Morte di un Musicista Blues. Tratto da MAYATEATRO

Nel tempo del dramma o se preferite della coagulazione del sangue, il colore rosso domina la scena ed il paziente, nostro attore protagonista, procede a braccio dimenticando battute e copione.

Direi che in questo tempo, la vittima improvvisa concetti che non sono assolutamente concetti, farfuglia suoni in luogo di parole ed accenna movimenti improvvisi, veri e propri sussulti nervosi come a proteggersi il corpo appena offeso, le sue ferite sanguinanti ed in generale un po’ tutti gli organi delicati o, se preferite, i parenchimi nobili.

L’interazione tra quest’uomo insanguinato e gli indaffarati professionisti della salute, muove da due piani diversi: da una parte la paura del dolore e delle mani straniere ed ancora degli strumenti che quel dolore potrebbero sicuramente determinare.

Dall’altro la necessità di operare, l’urgenza di intervenire.

Direi che nel tempo della coagulazione l’elemento drammatico scaturisca proprio dal fatto che gli attori giochino partite diverse in un contesto schizofrenico ove il punto di realtà è solo nel sangue che sgorga: tutto il resto è paradossale, fuori da ogni tipo di logica.

Proviamo a pensarci insieme...

Io che fui attore e paziente di quel dramma fui trasportato in Pronto Soccorso dopo essere stato ingiustamente insanguinato da delinquenti in divisa non preoccupati di quanto, in quel tragico luogo, io mi preparavo a fare.

Io che avrei dovuto tamponare il sangue altrui e lenire il dolore e prevenire mali peggiori, ora ero impossibilitato ad esercitare questa professione possibile.

Io, uomo di pace, possibile soggetto di salute e di cura, ora ero trasformato da tre pazzi invasati in oggetto di cura.

Io a terra frastornato, io stanco ormai di gridare il diritto ed il dovere alla mia professione, io che imploro di non essere lasciato solo.

Io non ancora cosciente dell’accaduto ed ancora qualche centimetro distante dalla paura, io che guardo rincoglionito il mio stesso sangue colorare le mani.

Io che con pezze di fortuna cerco di tappare, ostruire, impedire agli orrendi squarci di perdere sostanze.

Presto, molto presto, scoprirò la proprietà di quegli squarci...

O farei meglio a dire ferite?

Presto, molto presto, abbandonerò mio malgrado l’anestetizzato mondo della commozione celebrale ed avrò tragicamente davanti il primo atto di questo tragico spettacolo teatrale.

Oh certo, da ligio attore brechtiano a questo punto, tra i due atti della rappresentazione, avrei dovuto non perdermi in fronzoli ed avvertire magari mia madre o mia moglie o mio figlio, di quanto stava accadendo.

Purtroppo questo piccolo caro pubblico aveva già assistito alla macabra scena in televisione: non mi perdonerò mai il fatto di aver loro cagionato quest’attimo di morte.  
Ma questa è un’altra storia.  

Torno invece al paradosso della vicenda: infermieri e medici potenziati nel numero per l’eccezionalità del caso, aspettavano il nostro arrivo in Pronto Soccorso.

Io dico: le ferite non si aspettano, le ferite si evitano e si prevengono.  

Certo, questo in una storia normale ma il teatro della vicenda che sto raccontando non lo è affatto. 

Ed allora uomini vestiti di bianco attendevano uomini sporcati di rosso da uomini vestiti di nero con in mano micidiali manganelli che qualcuno, direi quasi onomatopeicamente, si è divertito a chiamare “tonfa”.

Il paradosso è il sale della tragedia e noi feriti, l’esercito degli armati, i medici e gli infermieri in pronto soccorso, siamo stati attori d’un dramma come lo furono Agamennone, Aiace, Ettore in un tempo lontano ma attuale.

Il tempo della coagulazione del sangue presto lascia la scena ad un tempo in cui una crosta grossolana si sistema sulla ferita cercando di congiungerne finalmente i margini.

Chiamerei questo, il tempo della cicatrice.

Ora l’attore-paziente abbandona la farraginosa improvvisazione dettata dalla reminiscenza stanislavskijana e chiede alla memoria di ricordare un testo, delle parole con senso compiuto.

L’attore convalescente ora lavora per liberare le sue notti dagli incubi giacché il dolore che patisce alberga in luoghi intoccabili, indefiniti.

Il tempo della cicatrice è un tempo in cui tutti si chiedono perché e carezzano solidali il volto ancora tumefatto ed impaurito dell’attore convalescente: tante voci a sostegno, sorrisi, pacche sulla spalla, tanti applausi da parte di un pubblico che apprezza, partecipa ed in definitiva prova a divertirsi.

Nel tempo della cicatrice, il rumore della paura che qualcuno possa tornare di nuovo ad offenderti, è più forte del rumore di quegli applausi sinceri ed appassionati.

E’ un rumore che di notte diviene assordante come quello dei “tonfa” sbattuti ritmicamente sugli scudi di plastica o quello degli scarponi in minacciosa marcia sull’asfalto bollente.

L’epilogo di una tragedia è di solido affidato a figure superumane, deus ex machina, creature alate ed avvolte nel fumo.

Io dico che ho bisogno di tempo per chiedere ad un dio di stringermi forte la mano e trascinarmi via da questo mare di fango.

Un tempo che mi sembra di scorgere proprio tra queste parole che scrivo.

Per te lettore, pubblico, compagno...ma soprattutto per me.  

Le foto dei pestaggi sono tratte da INDYMEDIA


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Pagina pubblicata il 01/09/01