Memorie di un cooperante. Viaggio insolito di un infermiere.

Seconda Parte

 

Bombe italiane.
Chi si permette di pensare di far soldi costruendo strumenti di morte?
Ditemelo vi prego, non sono un esperto; sarà il solito Agnello o una allegra famiglia di uomini fatti da soli? Ed ancora, sa questa gente cosa produce il loro ingegno di "self made man"? Sono un infermiere e promuovo la salute, per questo combatto contro la morte e tutti gli strumenti che possono provocarla. Combatto, dico! Ditegielo a quei signori che si dicono liberi di produrre: io auguro loro cento sofferenze, brutte come quelle che hanno causato e non provo pena a pensarli piangenti e senza mani per lo scoppio di una loro creatura. Bum... ti sta bene, figlio di p.....!
Il chirurgo, tale Giuseppe, un Italiano con seri problemi di congiuntivo, mi ha parlato di un intervento appena concluso di amputazione di avambraccio.
Il paziente, un bambino di dodici anni, è arrivato in pronto soccorso con la mano spappolata da una mina scambiata per chissà quale giocattolo: il problema delle mine made in Italy accomuna tutte le guerre del mondo e ci rende famosi come per la produzione delle scarpe. Come dire, Italia: pizza, spaghetti e...bum, mine anti-uomo.
Ebbene il chirurgo, come ammalato di una febbre da convegno, ha disquisito con rigore assolutamente scientifico su di un rudimentale anestetico la ketamina, l'unico in nostro possesso che non provocando miorilassamento, non ha consentito di risparmiare alla sua mano armata di bisturi, una decina di centimetri di avambraccio.
Ho avuto l'impressione che l'oggetto in questione non fosse per l'appunto un arto umano ma un trancio di manzo al quale, a causa di una lama poco affilata o magari di un colpo maldestro del macellaio, fosse stato asportato con l'osso, anche un pezzo di polpa commestibile.
Ho visto il bambino operato, è a letto sveglio e lucido, scuro in ogni dove se non nel bianco del suo moncherino troppo accorciato, fasciato di bende: gli ho fatto una medicazione con estrema cura come se volessi chiedere perdono a nome dei costruttori di bombe ma anche dei chirurghi macellai
Ha il catetere vescicale e gli provoca un gran fastidio, vorrebbe sfilarlo da quella sede per lui innaturale e per questo qualcuno gli ha legato il braccio, quello intero, al bordo del letto.
Lo avvicino diverse volte, non ci so fare con i bambini, la pediatria manca nel mio curriculum, lui lo sa e sfugge ogni mio tentativo di catturare i suoi occhi, se lo accarezzo m'insulta in una lingua sconosciuta, se gli mostro la penna che ho nel taschino, gira il suo volto verso il muro come ad incontrare un amico fidato e invisibile.
Anche suo padre è di ghiaccio, rifiuta il cibo che all'ora di pranzo mi curo di fargli portare. Mi guardano strano per questo: il boss ha dato ordine di offrire cibo solo ai ricoverati, chi transige paga il conto e da queste parti nessuno può permettersi di correre un rischio simile. "Pago io, pago io", assicuro chi protesta anche se questo mi fa sentire antipatico, come dire "ho i soldi e posso permettermi di essere magnanimo, voi invece, poveretti...". No, non è così, eppure, ma, se...
Intanto padre e figlio non condividono i miei dubbi filosofici, hanno altro a cui pensare.
Pian piano decifro il loro odio nei miei confronti, ne intendo il significato dei gesti e dei rifiuti, leggo le parole nei loro occhi e ne condivido lo spirito.
Ce l'hanno con me e con tutti, il loro è un sodalizio contro la guerra e con quanto, nel bene e nel male, gli gira intorno; la rabbia li acceca ed accende la loro rivincita che vien fuori in silenzio.
Se potessero, andrebbero via da soli rinunciando al genere umano, ad un mondo che non gli appartiene più, che disdegnano senza parole, che odiano senza parlare.
La guerra uccide anche chi non muore, anzi sono i più fortunati a morire. Chi resta è condannato a soffrire ed a piangere un braccio che non c'è più.
 

6 giugno 1994.
Giornata di lavoro durissimo ma zeppo di soddisfazioni: è difficile venire in Somalia ma poi, se ci sei, è più difficile andar via.
Luogo comune, mi pento e mi dolgo dei...
Dopo una difficoltosa riunione con i nostri guardiani, una volta pastori e cammellieri, nomadi e predatori, "morian" come si dice qui, sono riuscito a convincerli ad andare a scuola, offrendo la mia disponibilità ad insegnar loro l'Italiano.
In realtà il loro interesse sembra essersi acceso quando il mio amico Boss si è detto disponibile ad accettare la cosa durante e non fuori l'orario di lavoro.
La scuola è immediatamente fuori il recinto dell'ospedale Italia.
E' un edificio basso e ristrutturato di recente; sul tetto in lamiera, sventolano appaiate la bandiera somala e quella Italiana a significare un antico gemellaggio che poi però tutti ricordano come una brutta esperienza.
Le aule sono spaziose ed ancora impregnate di vernice fresca, i banchi essenziali ma funzionali, descrivono due file perfette ; c'è anche una lavagna, del gesso colorato ed una spugna per cancellare.
Una scuola!
Ed io un un infermiere-insegnante, un maestro dal camice bianco, un fine conoscitore di penne e siringhe, di sangue e cervelli... chissà cosa penseranno di me!
Sono in cattedra alla 15:30 e distribuisco sui banchi una penna, una matita ed un quaderno a quadretti.
Gli "studenti" arrivano poco dopo, in silenzio, curiosi, si guardano intorno, credo abbiano come paura; poggiano le armi sui banchi, i caricatori a terra e mi accorgo di avere, per caso, qualche fucile puntato.
Silenzio.
Prendo coraggio, invito il capo guardia a venir fuori con me e lo guardo come a significargli che qualcosa non va.
Rientriamo poco dopo , seguono dialoghi concitati, qualcuno sembra d'accordo, qualcun altro gesticola in maniera violenta, io osservo in silenzio mascherando ansia e un po' di paura poi un guardiano, il più giovane, non ha neanche la barba, raccoglie tutti i fucili ed abbandona l'aula.
La cultura non ha bisogno di fuoco.
Missione compiuta, possiamo iniziare!
Gesso alla mano, scrivo la lettera A sulla lavagna gridandola a tutti.
AAAA, gridano tutti e così sino alla zeta.
Ismahil mi chiama Maestro, mostrandomi quella tenerezza e quella dolcezza che solo un adolescente aggressivo e con un mitra in mano riesce a palesare; Dahir se la ride, non sa leggere e scrivere ma si diverte un casino, ripete con me: -Buongiorno, io sono Dahir. Ho venti anni. Vivo in Somalia e sono un agente di sicurezza.
Addow dice di essere una -ragazza-, provo a spiegare l'errore di desinenza, un boato di grida, risa, spintoni e gesti volgari mi dicono che hanno capito: Addow è un RAGAZZ-O!
 
 
 

Questa sera mi hanno invitato ad un matrimonio, in paese.
I miei compagni di viaggio avrebbero certamente rifiutatore per ragioni di sicurezza ma alla fine è prevalsa la tesi secondo la quale da queste parti come ovunque, non accettare un invito è cosa da evitare.
A sposare è una delle nostre guardie, non l'ho mai visto al lavoro tanto è stato impegnato, in questi ultimi tempi, nella preparazione della sua nuova casa.
Siamo usciti di sera, a bordo del nostro fuori-strada sgangherato: non una luce se non quella della luna, non un'anima lungo la strada.
In un quarto d'ora abbiamo raggiunto il luogo ove si celebra la festa, ce ne accorgiamo dagli spari che salutano il nostro arrivo.
Mi aspetto di incontrare la sposa per spiarne gli abiti e la bellezza ma qualcuno mi avverte che non la vedrò, che nessuno la vedrà questa sera: è chiusa in casa con suo padre e con lui una specie di procuratore; mentre noi facciamo festa, loro mettono a punto il contratto matrimoniale.
La casa è costruita con canne e fango, lo sterco funge da intonaco; all'interno tantissima gente applaude il nostro ingresso.
Non sono mica io a sposarmi!
Tappeti sbiaditi, cuscini ricamati, fiori bellissimi infilati in bottiglie di Coca-Cola, luce da una lampada a gas, fioca e riposante, odore d'inceso, musica araba, insomma semplicità ed insieme un certo decoro, tipica dignità di chi è contento di quanto possiede.
La madre dello sposo ci fa accomodare su di un tappeto il cui accesso è consentito rigorosamente senza scarpe.
Dopo qualche lampo di flash, ognuno vuole la foto col "bianco", ha inizio la cena: è una fantasia incredibile di sapori e di colori, dall'agro al dolce, dal verde al giallo; ognuno riceve un piatto con semplici biscotti, un involtino di pasta ripieno di carne di manzo, cipolle e verdure, una gelatina dolcissima quasi solida che, dallo sguardo dei bambini, credo abbia il significato sociale che da noi ha la  Nutella. Quindi latte di cammello freddo in bicchieri di latta o, a me che gentilmente rifiuto, acqua con limone e Coca-Cola.
Ci laviamo le mani in una scodella comune e mi arriva un profumo che spruzzo sul viso e sul collo.
Nuovi rumori di spari, urla di donne in segno di gioia, vittoria, soddisfazione, ci avvisano che il matrimonio è cosa fatta.
Sono da poco in Somalia e sono già uno di loro; questa festa ha sancito il mio ingresso in comunità come in un rito di passaggio, un'iniziazione, una proclamazione di nuova cittadinanza.
Comincio a pensare alla Somala, senza fretta o frenesia e mi capita di osservare qualcosa per minuti senza vederla, scorgendo così i colori e gli odori dell'Africa in una sorta di lucida incoscienza o vigile assenza: una profonda sensazione estetica ove corpo ed intelletto sono uniti nell'istante catartico ed ogni ricordo sparisce in nome dell'attimo contemplativo.
 

7 giugno 1994.

Ismahil.

Ismahil ha dieci anni, ha occhi grandi ed intelligenti, è alto e magro e
dal portamento intuisco la sua figura futura, adulta e slanciata,
imponente e discreta al tempo stesso.
Non so come nè perchè sia capitato qui in ospedale: non è malato, non ha
parenti feriti.
Non fa altro che spiarmi pur rifiutando di incontrare i miei occhi: è
ora dietro una porta, ora all'angolo di una parete, ora mimetizzato nei
colori delle stoffe che le donne somale indossano con eleganza e pudore,
avvolgendovisi in innumerevoli giravolte al mattino, sole e seducenti,
intente a guardarsi su pezzi di specchio dalle forme irregolari, doni di
militari romantici per una notte,uomini generosi, uomini che promettono
matrimoni e l'Italia, uomini che giurano di essere liberi da vincoli
sentimentali, uomini eroi e maschi latini, uomini bugiardi che dopo aver
goduto non sopportano che qualcuno divida il letto con loro, uomini che
al mattino fanno finta di nulla, uomini che prima o poi volano via nello
stomaco di un Antonov rauco e gigante, uomini che prima o poi non vedi
più se non seduti al bar con gli amici a raccontare scopate africane,
uomini eroi e maschi latini, uomini bugiardi.

Si diceva di Ismahil: ebbene quasi a conclusione della giornata, quando
farfalle, insetti cresciuti sino all'inverosimile e le immancabili
zanzare, annunciano con un impazzito sciamare, la notte imminente quasi
fossero paladini della luna, Ismahil frantumando in un solo attimo dieci
anni di timidezza, mi ha avvicinato e concedendomi solo frazioni di
sguardo, ha salutato in italiano:
-Ciao, dottore!-
Non sono un dottore per fortuna ma mi è così difficile spiegare ad un
bambino la differenza che passa tra uomini di potere e uomini che il
potere non ce l'hanno, non riesco a vomitare tutto il mio odio sui
camici bianchi
; se sapesse: sono quì anche perchè sono fuggito da loro,
lecchini e primari dalla "R" moscia, gli occhiali legati al laccetto di
cuoio, il fonendoscopio colorato e all'ultimo grido che ciondola in
petto, l'aura del sapere intorno a quelle figure, sì questo soprattutto,
quella luce che gli brilla come una specie di cerchio, rendendoli
diversi dai comuni mortali e giudici supremi delle vite degli altri. No,
non sono un dottore anche se indosso un camice bianco e per il piccolo
Ismahil appartengo alla casta degli stregoni, depositari unici di una
scienza nobile e guaritrice, fatta di bende e miracolosi "chinini".
Per "chinino" qui s'intende ogni sorta di medicina, in fiale o in
compresse, probabilmente in onore del famigerato antimalarico che tante
vite ha salvato e continua a salvare. Peccato per il mitico Coppi che da
queste parti qualche vecchio, magari laureato in Italia, ricorda mimando
le sue gesta in salita.
-Ciao, che fai qui, conosci l'Italiano, dove lo hai imparato?-
Ismahil mi parla con orgoglio della sua frequentazione dei soldati
italiani, "amici e fratelli" li definisce...

L'ospedale sorge nel campo ove sino a pochi mesi fa il contingente
italiano aveva un distaccamento.
Da quanto capisco il bimbo fungeva da tuttofare nel campo in cambio di
pochi dollari o di cioccolata; è molto sveglio e in un attimo di
spregiudicato coraggio mi guarda fisso negli occhi e mi confessa il
desiderio di venire a studiare in Italia così da diventare "dottore e
curare i bambini ammalati di malaria", malattia che lui stesso ha patito
innumerevoli volte come d'altronde chiunque viva qui.
Caro Ismahil, se un giorno diventerai medico non tornerai quì a curare i
bambini... ma questa è un'altra storia!
Ha in tasca una penna ed una matita che mi mostra quasi fossero oggetti
preziosi; mi concede di toccarli anche se mentre lo faccio mi guarda
preoccupato poi sorride sicuro quando li ha di nuovo in mano.
-Diventerai un bravo dottore, Ismahil e guarirai tutti i bambini malati-

Gli ridono gli occhi, è fiero e pieno di speranza malgrado sia composto
e lontano dalla gestualità infantile e chiassosa dei bambini della sua
età: voglio dire, è già francamente somalo e dei somali ha già l'abito
migliore, quello sfoggiato ogni giorno ed ogni momento; mi riferisco
alla estrema calma espressa in prolungati silenzi con gli occhi
indirizzati nel vuoto, o anche espressa in strane posture a noi scomode
e forse ridicole, con i talloni appiccicati ai glutei e le ginocchia
alte sino al capo ove una bocca muta e bianca nei denti, mastica un
piccolo arbusto come una unica ragione di vita.
Tutto questo è Ismahil e come lui i suoi coetanei: raramente ho visto
bambini giocare, i più siedono "calmi" sulle panche di legno che
disegnano il perimetro dell'atrio dell'ospedale, masticano arbusti con
il volto poco distante dalle ginocchia raccolte, spalle dritte e
silenzio assoluto, nient'altro se non la sconvolgente espressione
d'assenza.
Potrei dire che questo luogo ha oscuri poteri, potrei dire che anch'io
preferisco l'ascolto ed a volte mi scopro in silenzio da tempo.
Potrei dire che questa è una monotonia senza noia poichè non c'è
pensiero di ciò che ogni momento potrebbe essere oltre quello che è,
cosicchè fame, guerra, malaria si accettano religiosamente.
Potrei dirvi tante cose ma preferisco godermi questo silenzio magari
sognando il medesimo sogno del mio amico Ismahil; vorrebbe diventare un
dottore, io no, io non voglio diventare un dottore.

Lorenzo, PESCARA


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