Figli nel fango

di Lorenzo Marvelli

E’ seduto su un vecchio ma prezioso tappeto tessuto a mano.

Mura di fango in costruzione attorno, rami secchi intrecciano ed abbozzano un tetto che verrà.

E’ seduto mio figlio e piange un pianto di paura ma non di disperazione: la disperazione è dei padri che sanno che il futuro non esiste lontano dalle case di fango.

I bambini non vanno lontano, siedono a gambe larghe sul tappeto e non sanno dell’esistenza di quell’uomo grasso e dispettoso che si diverte ad indicare la via all’umanità in cammino e che noi padri siamo soliti chiamare “destino”.

I bambini piangono la paura ma non sanno disperarsi.

Anime innocenti!  

Ha la bronchite il mio bambino.

E la tosse e la febbre e il muco al naso.

Non ho coperte per proteggerlo dal freddo e m’affretto con le mani perché il muro di casa sia pronto prima della prossima notte.  

Ed impasto fango senza sosta e poi ne faccio mattoni, uno sull’altro per arrivare al tetto.

In fretta.

Prima della notte.

Ed impasto ed ammasso ed impasto ed ammasso ed impasto ed ammasso al ritmo del pianto di mio figlio.

E’ seduto sul tappeto, in dosso i resti di un vecchio abito che conserva tracce di arabeschi colorati: unica dote di padre al bimbo impaurito.

Lui osserva il frenetico operare e piange perché io lasci questa stupita industria nel fango e gli segga finalmente accanto per accarezzargli gli ispidi capelli e per raccontare storie di cavalieri del Panshir, di carovane di cammelli dirette in Kashmir, di re e di principesse di Kabul.

Mi guarda e quel che vede è il ricordo della notte ormai trascorsa, il rumore delle bombe, il buio per non essere localizzati, il vento gelido che presagisce l’inverno che viene.

Piange quel ricordo il mio bambino, piange per la mamma andata via: lei cantava nenie stringendolo forte in petto, una splendida coppia sotto l’intimità del burka che lei, la madre, solo al suo piccolo consentiva di violare.  

Dondolavano per ore a quella musica e poco dopo il bambino cessava di tossire, lo vedevi chiudere gli occhi vinto da un sonno il cui segreto è nell’archetipo madre-figlio ed a nessuno è dato di sapere, a nessuno è dato di curiosare in quella pietà che il burka avvolge.

So dov’è la madre ma è inutile che lo dica: mio figlio non sa cos’è la morte anche se lei, dispettosa, ci balla la sua danza intorno.

Piange lo star solo il mio bambino, seduto sul tappeto, consumato dalla febbre, prostrato dalla tosse che non gli da pace.

Impasto ed ammasso fango guardando, ora il lavoro che ho davanti, ora i suoi occhi neri e tondi, bagnati di pianto e di paura; abbozzo un sorriso ma lui non muta di una nota la cantilena, non interrompe i suoi accessi di catarro e quel tremore straziante, il ritmico sollevare delle spalle, la manine sul petto a lenire inutilmente il fuoco del dolore, mi ordinano di completare l’opera al più presto.

Il muro!

Impasto ed ammasso ed impasto ed ammasso ed impasto ed ammasso...

La cazzuola è vuota e l’impasto è ormai secco.

Era sua madre, prima d’andar via, a correre verso il pozzo ed a tornare crocifissa su di un bastone dal quale pendevano, pesanti, due secchi gocciolanti.

Prima.

Ora lascio il muro e m’avvicino al piccolo, lo bacio sulla fronte bollente: “Aspetta amore mio...”

Afferro i secchi e corro all’impazzata verso l’affollato pozzo.

Inutile chiedere sconti, qui nessuno ha tempo per gli altri, nessuno ascolta i guai di nessuno.

Eppure non posso rinunciare all’acqua: il fango è secco e poi il muro, ancora poco e poi il tetto, un riparo finalmente, per il gelo della notte, per l’inverno che viene, per la tosse ed il catarro, per il pianto e la paura.

Per mio figlio, per mio figlio!  

Il peso del secchio pieno d’acqua sulle spalle, un pensiero a lei ed alla sua fatica per la casa; corro una corsa appesantita.

Verso il muro, verso il piccolo.

Questa sera sei a casa con papà!

E’ disteso sul tappeto, le manine al petto come a trattenere l’ultimo respiro, una vita..

Gli occhi sono chiusi, non più tosse, non più pianto, non più paura: è andato via.

Vorrei toccarlo, vorrei stringerlo e morire insieme a lui, maledetto il pozzo e l’acqua ed il fango...  

Sto zitto, fermo, mi astengo da ogni possibile interferenza: sotto il burka, ora dondola in eterno con sua madre al suono di quelle nenie che nessuno ha il diritto d’ascoltare.

Ballate allora il vostro riposo eterno... buonanotte amori miei.  

E tornano le bombe, il frastuono degli aerei, il fuoco e gli ultimi crolli: libertà duratura, giustizia infinita!

Vedo uomini e donne correre e gridare e piangere e cadere e talvolta tornare su e poi correre, di nuovo, correre, correre, correre...

Con calma, torno al muro.

Impasto ed ammasso ed impasto ed ammasso.

Il fango ha ripreso il suo vigore grazie all’acqua che ho portato, ora aderisce, s’alza verso il tetto che sarà.

Prima che sia notte, prima che sia notte...

Immagini: www.afghan-web.com

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Pagina pubblicata il 01/11/01