Da circa tre settimane, sto lavorando nell’Istituto penale per minorenni “Gian Paolo Meucci” ed, inevitabilmente, comincio a riflettere sui limiti e sulle opportunità di questa esperienza.
Ricordo molto chiaramente il mio primo giorno
di lavoro;
“Qui dentro...soddisfazione zero”, questa è l’affermazione con cui fui accolto dall’infermiera di turno.
Appena giunti in infermeria, mi fu fatto notare lo stato di estrema precarietà in cui versava il locale; mancanza di ferri chirurgici per le medicazioni, di un carrello per la terapia (che intanto è somministrata grazie all’ausilio di un contenitore di plastica, precedentemente destinato a contenere le mozzarelle…), nonché degli appositi registri per la stessa terapia e/o per le comunicazioni infermieristiche…“Nel terzo mondo sono attrezzati meglio di noi, ma per questi quello che c’è è anche troppo”, e questa fu la seconda affermazione che udii.
In
maniera frettolosa ed in sequenza rapida, mi furono elencate le cose e le
tecniche cui mi sarei dovuto attenere durante il mio servizio. Una volta
conclusa la preparazione della terapia (fondata sulla somministrazione di
psicofarmaci, calmanti e ansiolitici) ci avviamo verso le celle per dare inizio
alla distribuzione. Eravamo in attesa che l’agente di turno ci venisse ad aprire
la porta che permette l’accesso alle celle…quando, nella sala dove fu
distribuita la terapia, si udì un progressivo levarsi di urla, rumori metallici
e passi che annunciavano l’arrivo dei detenuti nella stanza adibita ad
ambulatorio; “Stanno
arrivando”, mi disse la mia
collega.
Fui
subito colpito dallo sguardo, a metà tra l’incazzato ed il narcotizzato, di
tutti questi ragazzi (circa una ventina). I ragazzi, uno per volta erano
chiamati dagli agenti di polizia penitenziaria che, come da “regolamento”
presenziavano (in due) alla terapia, sollecitando (a calci, schiaffi e lancio di
chiavi nella schiena) i detenuti più lenti nella progressione o più curiosi,
rispetto alla terapia da assumere, forse per la fretta di correre verso
“altre attività”.
Conclusasi
la somministrazione, appena usciti dall'ambulatorio, la mia collega mi chiese se
ero abbastanza sconvolto e se, contrariamente a “come fanno le vecchine della
misericordia”, l’indomani sarei
tornato.
Da quel
giorno ne sono passati altri diciassette, non sono tanti, ma sono stati
sufficienti per capire che anche Firenze, nonostante il suo apparente aspetto
borghese, è sede di soprusi ed
abusi, semplicemente perché in Via degli Orti Oricellari ci sono ancora ventidue
persone in attesa di essere riconosciute come tali. Quando, come segno di
conforto, si allunga una mano per poggiarla sulla spalla di un uomo e questi si
copre il volto per paura di essere percosso per l’ennesima volta, si prova tanta
amarezza e si scopre che il rispetto dei diritti umani fondamentali è ancora un
traguardo utopistico.
Gian
Paolo Meucci, (da cui prende nome l’omonimo istituto penitenziario per
minorenni), per vent’anni Presidente del tribunale dei minorenni di Firenze, ha
affermato che:
“il bisogno all’educazione è un diritto che, come quello di libertà, si articola in tanti diritti, perché diversi sono i bisogni radicali di apporti educativi che si manifestano nell’arco dell’età evolutiva. Ma, mentre per il diritto di libertà ormai le prese di coscienza e l’elaborazione giuridica hanno identificato i diritti di libertà particolari, per il diritto ad essere educato un tale traguardo non è stato raggiunto, sicché è necessario proporsi uno sforzo di identificazione dei BISOGNI-DIRITTI ALL’EDUCAZIONE emergenti nel tempo, che non ha trovato ancora sensibili interpreti e non ha ancora concreti echi di risposta a livello delle prese di coscienza della gente (…) [1]
A dieci
anni dalla pubblicazione cui si riferisce la nota, il Comune di Firenze ha
stabilito che i detenuti seppur minorenni, qualora clandestini (il 90% di questi
ragazzi è di origine Nordafricana ed è incriminata per furto, spaccio e/o
detenzione di sostanze stupefacenti), al termine del periodo di custodia
cautelare ed in attesa del processo sono messi in libertà senza che alcun
servizio e/o assistente sociale se ne prenda cura.
Intanto,
la “legge” stabilisce che i detenuti in attesa di giudizio non possono essere
inseriti in alcun programma rieducativo né coinvolti in attività (se non
guardare la televisione per l’intera giornata, giocare a ping pong, a dama, a
calcio o vagare senza metà per gli stretti ed angusti spazi di cui dispone
attualmente la struttura).
Queste
sono soltanto alcune informazioni che dovrebbero bastare per stimolare chi, come
noi, fino ad ora è stato semplice spettatore inconsapevole, se non completamente
allo scuro di tali conoscenze.
Sia ben
chiaro, questi ragazzi non sono mussulmani sprovveduti da punire ed espellere nel più
breve tempo possibile! Questi ragazzi sono uomini che
attendono una carezza sincera, un esempio pratico di come si può vivere
diversamente, qualcuno in grado di amare, qualcosa per cui valga la pena di
tentare, un uomo che, gratuitamente, sia disposto a guardarli negli occhi senza
averne paura.
Gli
stessi operatori hanno bisogno della presenza di chi può umilmente offrire un
così degno contributo. Io, personalmente, ho notato che alcuni agenti hanno un
atteggiamento che, in un certo senso, è in linea con ciò che a loro è concesso
dal personale con cui sono obbligati ad interagire. In altre parole,
inizialmente provano ad agire con i soliti sistemi (violenza, superficialità,
aggressività), ma in un secondo momento, quando notano una forma di “non
collaborazione”, di dissenso non verbale, una forma alternativa di interazione
con i ragazzi, mutano a loro volta la modalità d’azione (maggiore disponibilità,
tolleranza, uso della parola, ect).
Mariano De Mattia
[1] AA.
VV., Nessun minore in carcere,
Regione Toscana (a cura di), Firenze, 1989.