CARCERE MINORILE

 

Firenze, 24 Aprile 1999

Da circa tre settimane, sto lavorando nell’Istituto penale per minorenni “Gian Paolo Meucci” ed, inevitabilmente, comincio a riflettere sui limiti e sulle opportunità di questa esperienza.

Ricordo molto chiaramente il mio primo giorno di lavoro;

“Qui dentro...soddisfazione zero”, questa è l’affermazione con cui fui accolto dall’infermiera di turno.

Appena giunti in infermeria, mi fu fatto notare lo stato di estrema precarietà in cui versava il locale; mancanza di ferri chirurgici per le medicazioni, di un carrello per la terapia (che intanto è somministrata grazie all’ausilio di un contenitore di plastica, precedentemente destinato a contenere le mozzarelle…), nonché degli appositi registri per la stessa terapia e/o per le comunicazioni infermieristiche…“Nel terzo mondo sono attrezzati meglio di noi, ma per questi quello che c’è è anche troppo”, e questa fu la seconda affermazione che udii.

In maniera frettolosa ed in sequenza rapida, mi furono elencate le cose e le tecniche cui mi sarei dovuto attenere durante il mio servizio. Una volta conclusa la preparazione della terapia (fondata sulla somministrazione di psicofarmaci, calmanti e ansiolitici) ci avviamo verso le celle per dare inizio alla distribuzione. Eravamo in attesa che l’agente di turno ci venisse ad aprire la porta che permette l’accesso alle celle…quando, nella sala dove fu distribuita la terapia, si udì un progressivo levarsi di urla, rumori metallici e passi che annunciavano l’arrivo dei detenuti nella stanza adibita ad ambulatorio; “Stanno arrivando”, mi disse la mia collega.

Fui subito colpito dallo sguardo, a metà tra l’incazzato ed il narcotizzato, di tutti questi ragazzi (circa una ventina). I ragazzi, uno per volta erano chiamati dagli agenti di polizia penitenziaria che, come da “regolamento” presenziavano (in due) alla terapia, sollecitando (a calci, schiaffi e lancio di chiavi nella schiena) i detenuti più lenti nella progressione o più curiosi, rispetto alla terapia da assumere, forse per la fretta di correre verso “altre attività”.

Conclusasi la somministrazione, appena usciti dall'ambulatorio, la mia collega mi chiese se ero abbastanza sconvolto e se, contrariamente a “come fanno le vecchine della misericordia”, l’indomani sarei tornato.

Da quel giorno ne sono passati altri diciassette, non sono tanti, ma sono stati sufficienti per capire che anche Firenze, nonostante il suo apparente aspetto borghese,  è sede di soprusi ed abusi, semplicemente perché in Via degli Orti Oricellari ci sono ancora ventidue persone in attesa di essere riconosciute come tali. Quando, come segno di conforto, si allunga una mano per poggiarla sulla spalla di un uomo e questi si copre il volto per paura di essere percosso per l’ennesima volta, si prova tanta amarezza e si scopre che il rispetto dei diritti umani fondamentali è ancora un traguardo utopistico.

Gian Paolo Meucci, (da cui prende nome l’omonimo istituto penitenziario per minorenni), per vent’anni Presidente del tribunale dei minorenni di Firenze, ha affermato che:

“il bisogno all’educazione è un diritto che, come quello di libertà, si articola in tanti diritti, perché diversi sono i bisogni radicali di apporti educativi che si manifestano nell’arco dell’età evolutiva. Ma, mentre per il diritto di libertà ormai le prese di coscienza e l’elaborazione giuridica hanno identificato i diritti di libertà particolari, per il diritto ad essere educato un tale traguardo non è stato raggiunto, sicché è necessario proporsi uno sforzo di identificazione dei BISOGNI-DIRITTI ALL’EDUCAZIONE emergenti nel tempo, che non ha trovato ancora sensibili interpreti e non ha ancora concreti echi di risposta a livello delle prese di coscienza della gente (…) [1]

   

A dieci anni dalla pubblicazione cui si riferisce la nota, il Comune di Firenze ha stabilito che i detenuti seppur minorenni, qualora clandestini (il 90% di questi ragazzi è di origine Nordafricana ed è incriminata per furto, spaccio e/o detenzione di sostanze stupefacenti), al termine del periodo di custodia cautelare ed in attesa del processo sono messi in libertà senza che alcun servizio e/o assistente sociale se ne prenda cura.

Intanto, la “legge” stabilisce che i detenuti in attesa di giudizio non possono essere inseriti in alcun programma rieducativo né coinvolti in attività (se non guardare la televisione per l’intera giornata, giocare a ping pong, a dama, a calcio o vagare senza metà per gli stretti ed angusti spazi di cui dispone attualmente la struttura).

Queste sono soltanto alcune informazioni che dovrebbero bastare per stimolare chi, come noi, fino ad ora è stato semplice spettatore inconsapevole, se non completamente allo scuro di tali conoscenze.

Sia ben chiaro, questi ragazzi non sono mussulmani sprovveduti da punire ed espellere nel più breve tempo possibile! Questi ragazzi sono uomini che attendono una carezza sincera, un esempio pratico di come si può vivere diversamente, qualcuno in grado di amare, qualcosa per cui valga la pena di tentare, un uomo che, gratuitamente, sia disposto a guardarli negli occhi senza averne paura.

Gli stessi operatori hanno bisogno della presenza di chi può umilmente offrire un così degno contributo. Io, personalmente, ho notato che alcuni agenti hanno un atteggiamento che, in un certo senso, è in linea con ciò che a loro è concesso dal personale con cui sono obbligati ad interagire. In altre parole, inizialmente provano ad agire con i soliti sistemi (violenza, superficialità, aggressività), ma in un secondo momento, quando notano una forma di “non collaborazione”, di dissenso non verbale, una forma alternativa di interazione con i ragazzi, mutano a loro volta la modalità d’azione (maggiore disponibilità, tolleranza, uso della parola, ect).

Mariano De Mattia


[1] AA. VV., Nessun minore in carcere, Regione Toscana (a cura di), Firenze, 1989.

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