Memorie di un cooperante. Viaggio insolito di un infermiere.

 

Racconterò l'Africa, la mia Africa, cercando l'azione di potenti vaccini trivalenti che dovranno rendermi immune dalla febbre gialla dei luoghi comuni.
Racconterò la guerra, una guerra da altri definita civile e tribale, da me riconosciuta non oltre un lembo di terra i cui confini sono un pacco di dollari o poco più.
Racconterò la violenza di uomini su donne e bambini, la violenza dei bianchi sui neri, dei neri sui bianchi e della natura su tutti; racconterò la normalità della morte, la sua concezione fatale ed insieme l'eccezionalità della vita , della speranza.
Chiederò aiuto ad una Musa, una Musa imparziale e sopra le parti che mi accompagnerà in questo viaggio della durata di un anno o forse meno.
Un viaggio che probabilmente scoprirò essere una fuga... ed ecco che inciampo nel tombimo di un luogo comune. Poco male all'inizio.
In bocca al lupo, comunque. A me e a tutti voi!
 

2 giugno, 1994.

Nairobi. Sono piombato quì questa notte a bordo di un jet Alitalia, comodo e mezzo vuoto.
Non ho ancora avuto il piacere di tirar fuori una lira: viaggio, pernottamento, pasti e spostamenti in taxi sono completamente a carico della Organizzazione non Governativa (N.G.O.) per la quale lavoro.
Ho in tasca un promemoria che ieri qualcuno mi ha frettolosamente  consegnato all'aeroporto di Fiumicino tra una pacca rassicurante sulla spalla e una coppia affettuosa di baci appiccicati sulle mie guance.
Il papiro stanco e sgualcito dal viaggio pesante, mi dice in una grafia tonda e femminea, di rigar dritto in albergo, Oriental Palace per la precisione.
Qui trovo alla reception una giovane indiana dall'inglese perfetto come il tailleur blu che indossa; ricevo dalle sue mani brune le chiavi della stanza e con esse una serie di raccomandazioni raccolte in una pagina grigia dal titolo "Wellcome!" che, grazie al mio fido dizionario tascabile, traduco più o meno così: chiudi sempre a chiave la camera, non accettare passaggi in macchina, fai attenzione a soldi e gioielli, mangia e bevi cibi e bevande sicure.
Salve Kenia!
Dalla finestra della mia stanza mi colpisce la tristezza di questa metropoli (o necropoli?) africana; dove sono i colori, il caldo, le palme?
Ho davanti agli occhi migliaia di uccellacci gracchianti dal colore di pece; non m'intendo di uccelli, potrebbero addirittura esser mostri preistorici dal verso spettrale. Volano dall'alto al basso disegnando cerchi perfetti e quando sembrano rovinare sul fianco di un grattacelo, battono l'aria violenti e puntano il cielo che si colora dei loro colori.
Dormo il mio primo sonno africano, sogni ineguali scanditi dai voli neri vissuti ier sera, faccio la doccia liberando il mio corpo dagli ultimi effluvi d'Italia, vesto panni leggeri, di lino ed affini in ossequio ai quintali di guide appena ingoiate.
In aeroporto vengo imbarcato in qualità di "Civil nurse" su di un Antonov amico, marchiato in pancia dalla sigla O.N.U.: mi sento importante anche perchè realizzo un sogno antico quando, giovane comunista militante in F.G.C.I., cantavo l'Internazionale con il pugno al cielo e gli occhi alla Rivoluzione.
In men che non si dica, l'equipaggio cosmopolita e cooperante è a Mogadisho: qui abiterò un anno, qui dovrò stare attento alla morte e alle malattie, qui dovrò non innamorarmi di nulla per non sconvolgere il mio futuro più di quanto non sia riuscito a fare sin'ora, qui dovrò abbronzarmi e dimagrire un pochino, dovrò imparare ed insegnare ad altri il mio mestiere, dovrò piangere il più possibile mio figlio e la mia donna lontani per capire quanto siano importanti, dovrò finalmente riposare un pò e soprattutto digerire colleghi ignoranti e primari pesci-cane, direttori e segretari mafiosi: ho tanta paura!
Cazzo... questo non è un aereoporto, è così silenzioso, se non fosse per i soliti militari americani... che casino che fanno. Di nuovo silenzio, di nuovo paura... non viene nessuno a prendermi!
"Nurse, nurse!"... oddio mi chiamano... "sì, sono io, nurse nurse!", finalmente. Grandi strette di mano, ma chi vi conosce, forse si usa così. Salgo sulla macchina, si fa per dire... ehi, spostate quei fucili, ho paura, e poi andate più piano, più piano, insomma siete pazzi!
"Correre, correre, banditi, ta-ta-ta-ta...", ho capito, ho capito, siamo una specie di bersaglio mobile e più veloci siamo più è difficile farci fuori.
Sono arrivato!

4 giugno 1994.

Il mio primo giorno di scuola: questo mi sembra di avvertire al cospetto dei miei nuovi insegnanti, infermieri italiani in partenza per missione conclusa, tornano a casa!
Vestono panni insoliti, colorati e sgargianti, i più indossano ciabatte di gomma che credevo scomparse dalla faccia della terra da almeno dieci anni; hanno piedi lerci e capelli rasati, sono magri e ubriachi di birra, non mi sono d'aiuto, spero di non diventar come loro.
Sembrano ammalati d'abitudine, qualcuno carezza un coltello, altri la nuca di una pistola con in pancia sei colpi; affogano ogni mio accenno d'entusiasmo con risa pacchiane come le armi che sfoggiano e mi sovvengono cento altre situazioni ove ho patito l'ingombrante esperienza d'altri che già avevano fatto quanto io stavo per fare: ho l'animo intriso d'attenzione ed invidia, forse sarò migliore di loro, tornerò a casa un giorno, acclamato e rimpianto.
La verità è che sembra tutto così lontano da me, il caldo, la luce accecante, i Somali dallo sguardo così diffidente ai quali griderei ora: -Sono qui per darvi una mano, vi amo tutti quanti, desidero che questa guerra finisca!-
Mogadisho o Moga come sento chiamarla da tutti: è ormai una città in agonia.
L'antico bianco delle sue costruzioni coloniali è il solo elemento che testimonia una città che fu.
Ora solo macerie ai bordi di strade piene di buche, ogni tanto ripari per cecchini costruiti con sacchi riempiti di sabbia ed al centro di queste minuscole fortezze, un foro che permette l'attento passaggio ad una canna di fucile, immobile e spettrale.
Tutti sono armati, anche i ragazzini che di sicuro non sanno cosa stia succedendo.
Chi non è armato, chi non presidia un accesso o una uscita, chi per scelta o per circostanza non è chiamato ad uccidere, siede tranquillo su gradini alla stregua di uno spettatore, osserva impotente, come consumato dalla sua storia recente.
La città è divisa in due da una fantomatica "linea verde" come in ogni luogo di guerra.
Ove corre questo confine innaturale, tutti sono meglio nascosti tanto da lasciar immaginare oltre che desolazione, anche l'assenza di genere umano; nella parte Nord della città mi è capitato di vedere un mercato di cose inutili ad un periodo come questo: si vende ciò che si ha, che si è rubato poc'anzi come penne Bic, accendini, cinturini per orologi.
Il consumo non piange la guerra.
I Somali. Continuano a dire di non fidarmi; la gente che è qui in missione umanitaria alterna ad un sincero spirito d'aiuto, comportamenti rasenti il razzismo.
Un Colonnello italiano, l'unico rimasto ormai, è riuscito a dirmi nello stesso momento quanto sia stato errato l'intervento Americano e poi ancora quanto siano i Somali "più Napoletani dei Napoletani", intendendo per questi, gente con una cromosomica propensione al furto. Insomma un razzismo elevato alla seconda!
Continuo a non decifrare il senso delle cose, perchè si è combattuto, perchè si continui a combattere.
Potere, rivalità claniche, una fase coloniale non digerita completamente, ascolto chiunque sia in grado di teorizzare qualcosa ma è tutto così poco convincente sebbene avvincente.
Mi colpisce la vista, talvolta anche la conoscenza, degli adolescenti con in braccio il mitra: li osservo fieri ed impacciati, forse eroi, di certo non ora; qualcuno li ha rubati al gioco ed alle ragazze e così loro giocano ad uccidere masticando "ciad" (lo scrivo come lo si pronuncia) perchè la crudeltà vesta i panni del divertimento cosicchè la morte perda il suo aspetto tragico.
Anche le donne masticano "ciad" ‚ un'erba eccitante che i trafficanti, non solo Somali, trasportano qui dal Kenia ove cresce in altura.
Gli aerei che trasportano droga atterrano in luoghi ben protetti tutti i giorni, l'erba infatti va masticata fresca; ne esistono di qualità migliori e peggiori, me ne rendo conto dalla differenza di prezzo. Con qualche dollaro una allegra brigata si assicura lo sballo e il coraggio per un intero giorno.
Il rito della masticazione avviene sorseggiando del the dallo spiccato gusto di zenzero. In verità i più giovani amano al suo posto bevande gassate soprattutto Coca-Cola.
Non conosco ancora quali siano i micidiali effetti dell'"erba" ma, dall'importanza che ad essa tutti attribuiscono, immagino che senza "ciad" non vi sarebbe battaglia alcuna.
Il viaggio da Moga a Giowhar, novanta chilometri di pene lungo la vecchia via imperiale, oggi ridotta a poco più di una mulattiera, mi ha colpito per i suoi strani ed infiniti colori.
L'Africa mi ha forse mostrato la sua più bella fotografia: il rosso della terra macchiato da una vegetazione vergine e rigogliosa, è interrotto di rado da angusti villaggi con capanne essenziali, dimore poco comode ma comunque case e non ruderi tristi della città distrutta: uomini donne e bambini le abitano con semplicità e rassegnazione.
Non ho avuto impressione di movimento alcuno se non l'atto del versare the in bicchieri disordinatamente disposti su tavolini alzati mezzo metro da terra; attorno ad essi, la gente seduta o in piedi, osserva muta l'attuale quiete accennando timidi saluti col capo.
Talvolta si assiste al goffo trascorrere di un camion trabboccante di persone assiepate sino a nasconderne la forma reale: sono profughi in eterno movimento, alla volta di luoghi lontani e sicuri; è gente senza speranza ancora piangente i lutti freschi patiti, è gente di cui ognuno altrove ne ignora l'esistenza.
Ad accogliermi a Giowhar ho trovato un infermiere che conosco di vista, lo chiamerò boss d'ora in poi, giusto per non ledergli la privacy; boss è abbronzatissimo e felicissimo di vedermi.
Mi ha abbracciato a lungo, forse commosso e con una curiosità famelica ha preso a chiedermi dell'Italia, della politica e del calcio, del tempo che fa e di amici in comune.
Gli leggo negli occhi una voglia pazza delle cose che ha lasciato per venir qui, una italianità che forse è in ognuno di noi nascosta a casa ma traboccante e rumorosa all'estero.
Dopo la doccia e la cena, la visita in ospedale.
Eccolo l'ospedale, il luogo ove lavorerò, vivrò, conoscerò i Somali e la Somalia.
La struttura sebbene fatiscente e stracolma di insetti d'ogni genere, ha l'aspetto di un luogo ove è possibile ricevere un primo soccorso.
Qualcuno ha stabilito l'esistenza di una specialità chirurgica, una internistica, una pediatrica e una ginecologica; effettivamente la divisione degli spazi conferma questo tipo di organizzazione.
Il materiale non manca, gli infermieri indossano divise bianche anche se lavano poco le mani ed i piedi; mi colpisce uno di loro, il più anziano che tutti chiamano Cilibì: mi bacia le mani appena mi vede, accenna un inchino di sudditanza ma lo fermo in partenza. Mastica un italiano soddisfacente, mi racconta di aver lavorato in passato con gli italiani, "buoni e fratelli", così ci definisce chissà se con sincerità.
Indossa un cappello lavorato a mano, rosso e giallo con su scritto "forza Roma"; me lo mostra sorridendo e annuendo come a significare una sorta di complice amicizia nata tra noi immediatamente.
Ringrazio della devozione ma ho gli occhi altrove, non mi interessano ruffiani e faccendieri, mi piacciono gli eroi e gli sguardi che arrivano da un gruppo di giovani anch'essi infermieri che mi studiano con attenzione e qualche sospetto, fieri del possesso di una coloratissima penna a biro poggiata tra l'orecchio e la tempia.
C'è Abdi o Abbei come lo chiamano i colleghi, lungo e magro, bellissimo ed amatissimo dalle ragazze, c'è Abdulcadir con occhiali immensi osati con sconvolgente dignità, c'è Ascha, rumorosa e simpatica, c'è Dadow, poco più di un bambino, ottimo inglese, assetato di sapere e così tanti altri che mi circondano presentandosi a turno.
Continuo la visita guidata per i due piani d'ospedale, orgoglio di questa piccola città, lascito del contingente italiano ormai rincasato, unico edificio risparmiato dalla guerra.
I letti di degenza hanno materassi lerci e lenzuola colorate e diseguali, mi dicono il massimo in un posto come questo in un momento come questo.
Mi viene risparmiato per fortuna, l'ingresso ai bagni dei degenti dei quali non scorderò mai la puzza; nella guardiola degli infermieri vengo catturato da un poster appiccicato al muro con del cerotto da medicazione: vi è disegnata un'ape ed agli angoli la lettera "A" è scritta nei suoi diversi modi; la figura mi ricorda antichi cartelloni sui quali, bambino, facevo prove di lettura sotto l'attenta guida di una suora maestra.
Attiguo all'ospedale è un edificio, poco più di un garage, adibito a mensa. Qui i dipendenti possono consumare un pasto al giorno senza dover tirare fuori una lira; qualcuno, tempo fa, ebbe a lamentarsi della qualità dei cibi, Cilibì ha fatto la spia ed oggi quell'infermiere è tornato a fare la guerra.
Spero si nutra in modo migliore.
L'ospedale è completamente recintato, ai quattro angoli vi sono ragazzi a sentinella armati di mitra Kalashnikov o di vecchi fucili; compongono una squadra di ventiquattro uomini, hanno un capo ed un vice, mi dicono essere pronti a tutto. Ricevono da noi una paga di duecento dollari al mese, davvero tanto qui! Al capo ed al vice diamo una mancia all'insaputa di tutti, non so per quale motivo.
La città sino a poco tempo fa, era infestata da banditi senza scrupoli che spadroneggiavano rubando, uccidendo e stuprando.
Ebbene quei banditi oggi sono i nostri fidi guardiani, la nostra sicurezza, la nostra vita ed inoltre all'ospedale vengono risparmiati in questo modo saccheggi e distruzioni.
Ho una stanza accogliente in un prefabbricato in lamiera, prezioso lascito del contingente italiano; ho i miei libri, la mia musica, le soluzioni insetto-repellenti che alla sera applico con cura come una donna con le sue creme prima di coricarsi.
Condivido la casa con una infermiera anche lei di Pescara.
E' una ragazza buona e disponibile, affascinata dall'oriente ma approdata in Africa in fuga da un rapporto sentimentale burrascoso.
Si parla delle nostre vite sino ad oggi, della rivoluzione mancata, di fratelli scomparsi e di mogli che furono.
Diventeremo grandi amici, diventerà mia sorella ed io suo fratello.

Lorenzo, Pescara
 

 (continua)

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