L'INFERMIERE AMLETO DI W.SHAKESPEARE.



"Essere o non essere...".
Così si interrogava Amleto nel celeberrimo monologo dell'opera di
Shakespeare dopo aver ricevuto notizia dallo spettro del padre nei
pressi degli spalti del castello di Elsinore nel regno Danimarca, della
colpa dello zio omicida Claudio e della madre Geltrude, complice ed
adultera.

 

W.SHAKESPEARE


Amleto è uomo malinconico ed incerto sul da farsi, è un intellettuale
non violento, lontano dalla logica della vendetta, probabilmente stufo
di assecondare quei codici di comportamento così in voga e che prevedono
la soluzione finale, l'atto estremo: lavare l'onta con il sangue.
A guardare con occhi poco attenti questo giovane così poco sanguinario,
questo antieroe un po' timoroso e un po' codardo, viene voglia di
scuoterlo, sollecitarlo all'azione perché possa divenire un modello
d'identificazione.
Effettivamente il lettore frettoloso ama vestire i panni del cavaliere
senza macchia e senza paura, del marcantonio dal braccio possente e
dalla spada facile, dell'eroe dalla decisione immediata ed indiscutibile
come il paladino di Re Carlo o, perché no, come i supereroi dei fumetti
americani, i medici di E.R., Zorro, i giovani rampanti degli anni '80, i
celerini dietro gli scudi di plastica, gli imbonitori con la ricetta per
il cancro, per l'immigrazione clandestina, per la prepotenza di
Milosevich e così via in un gioco di proiezione ed identificazione che
risente di una cultura che domina.
Su questa strada, il giudizio non ha pace nella scelta di un modello ma
prepotentemente si lancia in invettive che deridono chi si dichiari poco
propenso all'azione, alla scelta a tutti i costi.
Purtroppo la riflessione è un esercizio intellettuale che l'uomo
considera faticoso o, ancor peggio, inutile.
Sin da piccoli siamo abituati a rispondere agli stimoli con grande
velocità, le nostre sinapsi sottostanno al giudizio di un cronometro che
decreta la nostra intelligenza se camminiamo prima degli altri, se
parliamo prima degli altri, se usiamo il vasino per la cacca prima degli
altri.


Anche il rapporto con le cose risente del "pensiero veloce", una sorta
di filosofia che riduce la complessità: chi non ritiene una automobile
migliore quando questa stessa è più veloce? O ancora, chi non preferisce
un libro quando la sua lettura risulti più scorrevole tanto da arrivare
prima all'ultima pagina?
La sostanza delle cose, quasi sempre materia complessa, diviene così
elemento di secondaria importanza: a che mi serve una auto così veloce?
E se il libro che mi appresto a leggere dicesse un sacco di "fregnacce"?

Rispondono i "nuovi filosofi": è il corso delle cose, è lo scotto della
società tecnotronica ed il tuo è un inutile bla, bla, bla!
Io non ci sto. Io non ci sto.
Non ci sto quando devo preferire ad una scuola che educhi alla
riflessione, un'altra che insegni un mestiere.
E chi ha detto che l'ospedale migliore sia quello della diagnosi che
precede l'indagine, della terapia d'attacco per evitare complicanze,
dell'accanimento al ricovero?
Mi chiedo quanto questo agire di petto non sia invece determinato da
contaminazioni di natura economica: ci sono i centri di costo, c'è il
budget, c'è il preside-manager ed il primario-manager.
C'è l'azienda e la sua politica.


Amleto, eroe al contrario, non era un manager e, per questo, viveva male
nel regno-azienda di Danimarca.
Amleto rifiutava la cultura del suo tempo allevando il dubbio dentro di
sé, elevandolo a metodo d'analisi quando invece la religione ufficiale,
quella che praticavano tutti, definiva l'universo come dimensione certa
e precisa secondo la concezione aristotelica-tolemaica con l'uomo,
creatura al centro, emanazione divina naturalmente propensa al peccato
e, per questo, obbligato dal precetto ad un solo comportamento.
Purtroppo Amleto, esponente della classe dirigente e manager mancato,
vivrebbe male allo stesso modo i nostri tempi, quelli della
società-azienda.


L'uomo di oggi è come l'uomo di ieri in Danimarca se demonizza il dubbio
e fa della certezza la sua religione.
Come dire: nulla o poco è cambiato.
Amleto, malinconico e riflessivo, intellettuale propenso all'incertezza,
sarebbe oggi un infermiere non al passo con le trasformazioni che la
professione sta vivendo.
L'infermiere Amleto infatti si asterrebbe dal compiere atti poco
ragionati e solo finalizzati all'obbiettivo; o meglio, egli
considererebbe come centro della sua arte, la capacità di soddisfare i
bisogni degli individui pazienti.
L'infermiere Amleto vivrebbe con angoscia il dubbio esercitando la sua
arte in istituzioni totali come il carcere, la Psichiatria, la
Pediatria, la Geriatria; egli, in luoghi come questi, soffrirebbe la
contraddizione della cura come liberazione da un male ma anche del
contesto come costrizione ad uno stato.
Come dire, agli occhi di Amleto l' individuo paziente è libero nella
misura in cui diviene oggetto di trattamenti in un regime di detenzione,
rinsavisce se accetta di sottostare alle regole, se non esprime
consenso, se considera i suoi bisogni secondari rispetto alle norme di
funzionamento della "prigione-reparto": porte e finestre chiuse,
iniezione per dormire, spazi vietati all'ingresso, personale non
disposto all'ascolto.
Il principe Amleto di Danimarca si finse folle addirittura cagionando la
fine dell'amata Ofelia.
Eppure quella follia mise il regno a soqquadro, gli uomini di fronte a
quelle strana energia ebbero timore della verità; Re Claudio, prima di
tutti, incapace di far fronte alla inusuale potenza di Amleto, disegnò
il macabro piano che tuttavia fallì aprendo le porte ad un finale pieno
di morte.


L'infermiere Amleto è vittima di questa follia che è l'essere finalmente
diverso in un contesto che brucia di menzogna; è una sana follia che,
pur facendo paura ai regnanti, libera l'individuo-paziente incatenato
dal pensiero dominante ad un letto di contenzione, apre le porte e le
finestre perché l'aria nuova pervada la "prigione-reparto", perché il
cambiamento sia esigenza espressa e non ordine, disposizione.

 

Lorenzo Marvelli.

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